Torturare con la musica

31 Maggio 2008 § 0 commenti § permalink

Suzanne G. Cusick è l’autrice un articolo molto interessante e veramente ben documentato sull’utilizzo della musica come strumento di tortura nelle prigioni americane in Iraq. Si potrebbe pensare che un utilizzo di questo tipo degradi la musica a rumore, ma credo sia vero il contrario: è la spaventosa amplificazione del messaggio a fare effetto, non solo la quantità di decibel, tanto è vero che alcune musiche sono adatte, altre no. Dunque è un utilizzo politico del messaggio, una violenza più psicologica che fisica. (Grazie ad Alex Ross per la segnalazione).

Due diversi modi per festeggiare Messiaen

31 Maggio 2008 § 0 commenti § permalink

messiaen_cristal

Il prossimo 10 dicembre saranno passati 100 anni dalla nascita di Olivier Messiaen, e gli omaggi hanno da tempo cominciato ad apparire un po’ ovunque. Qui vorrei ricordarne due, di taglio molto diverso: il film di Olivier Mille, intitolato La Liturgie de cristal, del 2002, da poco pubblicato in DVD nella bella collana “Juxtapositions” (The Crystal Liturgy, Ideale Audience 2007), e un buffo quanto incongruo articolo che gli ha recentemente dedicato il «Nouvel Observateur».

Il film di Mille è un bellissimo omaggio. Comincia con una lunga sequenza di canyon dello Utah, per poi ripercorrere la vita creativa di Messiaen per ampi capitoli, utilizzando frammenti di interviste, scene di paesaggio ed esecuzioni musicali. Ci sono tutti gli aspetti della lunga e per molti versi sorprendente vita di Messiaen: l’ornitologo serissimo, appassionato, spesso quasi infastidito dalla sufficienza con cui talvolta era (e per molti versi tuttora è) considerato questo aspetto della sua creatività. Lo studioso di discipline filosofiche e spirituali, con il capitolo sul Giappone, e l’indissolubile legame con le immagini e i motivi della fede cattolica. Messiaen compositore, dalla classe di Dukas alle prime creazioni, il campo di prigionia e la genesi del Quatuor puor la fine du temps, poi le tante fasi e la straordinaria ricchezza e varietà del suo catalogo, compreso il periodo americano e il vasto affresco di Des Canyons aux Etoiles (con delle belle riprese del Mount Messiaen, la montagna che gli fu dedicata nello Utah nel 1978). E ancora: Messiaen didatta, con gli interessanti frammenti di lezione al Conservatorio. E sopra tutto, molta bellissima musica, dal Catalogue des oiseux al San Francesco d’Assisi. Tutto in un’ora, sinteticamente riassunto ma non imbottito d’informazioni. Il DVD comprende anche tre frammenti di un precedente documentario di Mille su Messiaen, Des canyons aux étoiles, le Mode d’Olivier Messiaen, del 1997, fatto di interviste a interpreti, amici e allievi. Un invito ad approfondire e a conoscere, proprio come dev’essere un omaggio.

messiaenboulezopNei tanti inserti di intervista si ritrova il Messiaen immaginifico, quasi serioso nelle spiegazioni – ma con un filo di spirito sornione e un vistoso piacere nell’essere ascoltato e ammirato – intelligente e privo del timore di sembrare presuntuoso. Le prime parole che gli si sente dire sono:

Je suis musicien d’abord, bien entendu, compositeur de musique, professeur de composition, organiste, pianiste, aussi rythmicien – j’ai fait des études particulier des rythmes, surtout sur la métrique grecque et les decî-tâlas de l’Inde antique – mais je suis également ornithologue, et ornithologue professionnel et de métier, et ça fait plus de trente ans que je note des chants d’oiseaux pas seulement en France et dans toutes le provinces de France, mais dans tous les pays où j’ai pu voyager au cours de mes concerts.

La cosa che più piace e sorprende della sua intelligenza, è la capacità di portare all’interno del discorso musicale delle “immagini strutturali” (non saprei come chiamare altrimenti dei procedimenti di composizione basati su impressioni visive e auditive) provenienti da mondi ad essa estranei, fossero mondi della biologia (il canto degli uccelli, prima di tutto, ma anche una certa visione della storia naturale), dell’etnografia (la musica giapponese, il gamelan) o della filosofia e della religione (per esempio l’idea del “principio della vetrata”, cioè dell’utilizzo di una moltitudine di colori allo scopo di comunicare un unico colore complessivo). Tra gli esecutori che il film mostra, Ivonne Loriod (la sua seconda moglie), Kent Nagano (giovanissimo), Pierre-Lauren Aimard, e naturalmente Pierre Boulez.

boulezE proprio quest’ultimo trova un modo tutto particolare di ricordare Messiaen in occasione del centenario. Il «Nouvel Observateur» lo intervista in un articolo intitolato “Messiaen, mon Maitre”, e lui ricorda serenamente di aver definito la musica del suo maestro “musique de bordelle”: doveva farlo, era una giusta ribellione, dice. Poi aggiunge anche che in realtà nessuno lo seguiva nelle sue manie, in particolare il canto degli uccelli, la musica religiosa e quella d’organo. È così che Boulez continua a diffondere l’immagine di un bizzarro bigotto, un accademico con dei lati geniali e capace di grandi composizioni, alternate però a delle cose impresentabili e retrive («Messiaen ne compose pas, il juxtapose» ha persino scritto a suo tempo il suo caro allievo). Quanto ha fatto male, alla comprensione di Messiaen questa interpretazione? E perché in Francia non sembra essere possibile liberarsi dei pareri ex chatedra di Boulez? Basta osservare il senso di libera creatività che comunica Messiaen e il chiuso accademismo delle immagini di Boulez direttore per capire che le cose stanno esattamente al contrario. Boulez ha l’aria di un cardinale che officia i suoi misteri con gesti imperiosi e oscuri. Se poi si volessero confrontare le composizioni dei due, beh le cose si mettono anche peggio. Ma è davvero ancora così inevitabile confrontarsi con lui su tutta la musica contemporanea francese?

Rule, England!

24 Aprile 2008 § 0 commenti § permalink

sgeorge

Potrebbe la nostra epoca, quella della globalizzazione e dei sincretismi, assistere alla nascita di nuove forme di nazionalismo culturale, anche nelle democrazie più avanzate? Viene da chiederselo sfogliando l’ultimo numero del serissimo The Spectator, il settimanale della destra conservatrice inglese. “England Rides Again”, strilla il titolo di copertina, accompagnato dalla foto di un cavallo che balza agilissimo montato da un fantino vestito da corse di Ascot. È il numero speciale dedicato al St George’s Day, la “giornata nazionale” inglese. Il fantino ricorda l’iconografia tradizionale, che raffigura San Giorgio sul suo cavallo rampante nell’atto di uccidere il drago. Ma qual è il drago che il nuovo St George conservatore sente il bisogno di uccidere? Il numero non lo dice ma lo lascia immaginare: gli anni di governo laburista, l’eccessivo filoeuropeismo, la visione globalizzata del mondo conteporaneo, tutto quello che negli ultimi anni ha impedito agli inglesi di proclamarsi con il dovuto orgoglio supremamente, profondamente, unicamente English. English, neppure British.

Decine di pagine di rivendicazione accorata della propria diversità in pericolo, in voluto spregio a ogni politically correct, nelle quali si rispolvera persino il concetto di “accoglienza”: l’Inghilterra non ha bisogno di dimenticare la superiorità della propria civiltà per sentirsi aperta alle altre culture del mondo; alla base della sua cultura c’è l’accoglienza nei confronti dello straniero; naturalmente lo straniero dovrà mostrarsi in grado di capire la superiorita della cultura inglese, ed ecco dunque il fluent english richiesto obbligatoriamente agli stranieri che si trasferiranno nel Regno Unito, secondo una legge recentemente votata in parlamento. E qui, al lettore italiano, potrebbe ogni tanto balenare l’ombra grifagna di Bossi. Ma dietro la commozione nostalgica e agguerrita dei conservatori inglesi, c’è naturalmente un retroterra ben diverso dalla miserabile dottrina leghista: la terra perduta è uno sterminato impero e una cultura dominante sul mondo intero, non una fantomatica regione neoceltica. Ma sfogliando la rivista c’è un articolo che può incuriosire più degli altri. Si tratta di una pagina firmata da Roger Scruton, filosofo e intellettuale di marcata appartenenza conservatrice, che fra le sue molteplici abilità (è giornalista, conduttore radiofonico, romanziere e molto altro), vanta quelle di compositore e musicologo. Sulla figura di Scruton si potranno imparare molte cose consultando il suo profilo su wikipedia, compreso il messaggio email pubblicato dal Guardian che lo rivelava al soldo della Japan Tobacco International – forse per fare un po’ di sana propaganda al vecchio, buon vizio del fumo.

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Ma nell’articolo dello Spectator, Scruton parla della cultura inglese da un altro punto di vista. Ad essere qui lamentata è la mancanza di interesse da parte delle istituzioni pubbliche nei confronti della grandezza della musica inglese. In una carrellata storica che parte da Elgar, vero scopritore con le sue Enigma Variations e con i Sea Pictures della peculiare voce musicale inglese, passando per le tre generazioni successive che vengono individuate in quella Elgar-Vaughan Williams-Dolmetsch (quest’ultimo per il suo lavoro di riscoperta della musica Tudor), quella Britten-Walton-Tippett, e quella attuale, meno compatta e definita, dei Tavener-Holloway-Birtwistle. Specialmente nel caso della prima generazione, si tratta di compositori attraverso cui Scruton sente passare l’esaltazione dello “English way of live”: un sistema di valori in cui “i conflitti sono risolti attraverso la legge e le scuse educate, più che attraverso la forza” (e sicuramente su questo Gandhi avrebbe qualcosa da dire) – in contrapposizione all’aggressività del nazionalismo tedesco, e presumibilmente ai suoi rumorosi compositori, da Wagner e Bruckner in poi.

Mai, nell’intero articolo, è citata anche solo incidentalmente la possibilità che in Inghilterra siano negli ultimi quarant’anni nati suoni diversi e diverse culture, altrettanto singolari, rappresentative e presumibilmente anche più rivoluzionarie. Mai sono nominati i Beatles, i Pink Floyd, il rock “progressive” – figurarsi l’esistenza di un Britpop. Come se tutto questo non rappresentasse alcun nuovo valore, alcuna credibile revisione dell’Arcadia inglese. Ma anche un’altra cosa potrebbe stupire. Un buon quarto dell’articolo è dedicato al sostegno a un festival inglese dimenticato dalle istituzioni in nome del Politically correct: l’English Music Festival, che si tiene nell’Oxfordshire tra il 23 e il 27 maggio. Leggere il cartellone di questo festival, che ha come motto “The Spirit of England’’ lascia abbastanza perplessi. E chissà se sarebbe contento, il cosmopolita, curiosissimo Britten, di essere messo sotto una teca di vetro, o meglio sotto una teiera di Royal Albert porcelain.

E poi viene da riflettere: è pensabile una cosa del genere in Italia? Un festival di sola musica italiana? Neppure i cartelloni dei più provinciali teatri di tradizione di tanti anni fa si sono spinti così in là. Un Olandese volante, una Carmen, un Tristano e Isotta, magari in traduzione con tanto di Dancairo, Brangania e altri ridicoli nomi italianizzati, hanno sempre sentito il bisogno di metterli. Per non parlare della musica contemporanea, che se isolata da un minimo di contesto internazionale apparirebbe quasi inevitabilmente nei suoi aspetti più miseri e provinciali. Questa però è la situazione oggi, e visti i chiari di luna politici, del domani non si sa. Forse il festival della musica sinfonica padana è già alle porte.

Il filosofo e il neurologo

3 Febbraio 2008 § 0 commenti § permalink

sacksIn un precedente post avevo accennato a quello che un battage pubblicistico molto intenso – e un indubbio interesse suscitato dal tema – aveva annunciato come uno dei migliori libri sulla musica del 2007: Musicophilia: Tales of Music and the Brain, di Oliver Sacks. Capita ora che TLS, uno dei più seri settimanali di recensioni librarie del mondo (è l’inserto letterario del «Times»), pubblichi nel numero del 18 gennaio scorso una severa stroncatura, firmata da Jerry Fodor, filosofo e congnitivista americano, docente alla Rutgers University.

fodorL’articolo, intitolato “Mental Notes”, critica l’approccio di Sacks seguendo una linea non nuova ai suoi detrattori: vi si sostiene infatti che la rassegna di casi clinici presentati, e la “fissazione” che Sacks condivide con molti neurologi di chiedersi “dove” risiedano, all’interno del cervello umano, determinate funzioni, non solo non aiuti a capire i maggiori problemi dell’apprendimento e del pensiero, ma eviti di proposito alcune delle domande più importanti che il tema sollecita. Fodor, con un colpo vagamente sotto la cintura (ma di indubbio effetto), si riferisce alla fascetta editoriale del libro (e le stesse parole sono state riportate da quasi tutta la stampa che lo ha presentato), dove si afferma: “La musica è irresistibile, coinvolgente e indimenticabile, e in Musicophilia Oliver Sacks ci spiega perché”. Ma praticamente sin dalle prime righe, Fodor ci avverte che Sacks non ha affatto mantenuto la promessa: “Da un lato, molto di quello che Sacks dice sulla musica è banale […]. Dall’altro, molto di quello che dice sul cervello si rivela essere una neurochiacchiera [neurobabble]”. “[Nel libro] ci sono parecchi casi clinici che si rivelano, per molti versi, interessanti e sorprendenti; ma è difficile capire che cosa farne”. E qui già si comincia a capire il senso della critica: a molti sarà infatti capitato, leggendo un qualunque lavoro di Sacks (o vedendo uno dei film o delle opere che i suoi libri hanno ispirato), di rimanere affascinati dalla ricchezza di implicazioni e dagli aspetti sorprendenti che il disagio mentale comporta; ma in molti di questi casi era veramente difficile capire che cosa essi potessero suggerirci al di là della curiosità e di un interesse generico. Fodor su questa linea è letteralmente spietato: “Sacks è prodigo negli aneddoti, ma avaro nella teoria. Colleziona casi clinici come altri fanno con i francobolli”.

Le domande che Sacks evita – e che sicuramente non sono appassionanti solo un cognitivista come Fodor, ma anche per gran parte delle persone interessate alle cose della musica – sono tutt’altro che collaterali: che cosa distingue e caratterizza la musica, quale musica, cosa la rende tanto importante per l’essere umano, e così via. “Credo che il problema consista nel fatto che Sacks (così come molti altri suoi colleghi neuroscienziati) è quasi ossessivamente preoccupato di scoprire dove, nel cervello, le cose risiedano. Quello che ha in mente […] è soprattutto il confronto fra le ipotesi cliniche sulle localizzazioni dei danni cerebrali con i risultati delle scansioni di risonanza magnetica del cervello. Questo modo di condurre la ricerca sul cervello ha sempre incontrato il favore dei chirurghi, che molto appropriatamente ritengono necessario sapere quali pezzetti di cervello possono asportare, e quali no”. E ancora, per concludere: “Non credo ci sia nulla di male in questa strategia di ricerca; ma molto spesso conduce alla mancanza di interesse nei confronti delle domande sul meccanismo: in questo caso, nei confronti dei problemi relativi al meccanismo psicologico le cui operazioni presiedono alla percezione, all’esecuzione e alla composizione musicale”. È probabile che la polemica avrà un seguito, ma bisogna ammettere che è tutt’altro che infondata.

I libri che forse dovremmo leggere

19 Dicembre 2007 § 0 commenti § permalink

libriQuali sono stati i libri di argomento musicale più importanti del 2007? I giornali di tutto il mondo non lasciano molti dubbi, e mettono al primo posto, con una rassegna stampa imponente, The Rest is Noise, di Alex Ross. Uscito lo scorso ottobre negli Stati Uniti per Farrar, Straus and Giroux, il libro, che riporta il sottotitolo Listening to the Twentieth Century, è una bellissima storia della musica del Novecento condotta con taglio narrativo, piglio sicuro e grande capacità affabulatoria da un giovane critico newyorkese, che negli ultimi dieci anni si è segnalato come uno dei più sensibili cronisti e intenditori del rapporto tra musica e linguaggi contemporanei. Ross scrive sul New Yorker, una delle migliori riviste dell’intelligentsija americana, ma è anche più conosciuto, al di là di ogni confine geografico, per il suo influente blog che porta lo stesso titolo del libro. Lì ha cominciato, da ormai moltissimi mesi, ad annunciare il suo volume; da lì ha diffuso le sue recensioni, segnalazioni e analisi in tutto il mondo. Circa 600 pagine, suddivise in tre parti per quindici capitoli complessivi, su questo libro, che in italiano sarà pubblicato da Bompiani, torneremo presto. Basti dire che, anche senza prestare acriticamente fede alle tante recensioni encomiastiche che ha ricevuto, si caratterizza fin dalla prima, rapsodica lettura per la forza con cui tira le fila di un secolo di musica e lo immerge in una visione storica fatta di equilibrate sicurezze.
Accanto al libro di Ross, fra i più segnalati da tutti i giornali c’è il nuovo studio di Oliver Sacks, dedicato al rapporto tra musica e cervello umano: Musicophilia: Tales of Music and the Brain, pubblicato da Knopf, imprint del gigante Random Hause. Un altro bellissimo libro, di argomento molto vicino, è quello di Daniel Livitin: This is Your Brain in Music: Understanding a Human Obsession, pubblicato da Atlantic. Questi ultimi due testi sembrerebbero far pensare a un ritorno di interesse su un tema da molti anni trascurato dalla musicologia, e cioè quello della fisiologia e della neurologia dell’ascolto. Ma il fatto che vengano pubblicati da editori non specializzati in musica, e siano stati recensiti da giornali generalmente disattenti alla materia dispone ad altre riflessioni.
Si tratta davvero dei tre libri più importanti dell’anno? Molto probabilmente no, se li si analizza da un punto di vista strettamente musicologico. Ma ciò che più preme far notare è che si tratta di tre libri che hanno la forza di riportare la musica al centro del dibattito storico e scientifico, facendola uscire dalla nicchia dei musicofili e dei musicologi. E non è poco, se si pensa agli effetti che questo spesso superbo isolamento sta causando alla più ardua e necessaria tra le espressioni della creatività umana. Torneremo al più presto su ognuno di essi.

Dudamel e la bacchetta magica

6 Dicembre 2007 § 0 commenti § permalink

Per il suo debutto con la New York Philharmonic, Gustavo Dudamel ha ricevuto dalle mani di Barbara Haws, storica e conservatrice dell’orchestra, una delle tre preziosissime bacchette utilizzate da Leonard Bernstein. Questo per capire quale assurda aspettativa si sia creata intorno al giovane direttore venezuelano. La bacchetta del mago; una cosa più alla Harry Potter che alla Dukas. Dudamel l’ha usata per tutte e quattro le serate alla Avery Fisher Hall; in programma, la “Sinfonia India” di Chávez (pezzo eseguito con la NYP da Bernstein nel 1961), il Concerto per violino di Dvorák con Gil Shaham e la Quinta di Prokof’ev. Il «New York Times» ci avverte che alla quarta sera, martedì scorso, poco prima della fine, la bacchetta di Bernstein s’è rotta. Niente di personale, si dice.

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