Un allevamento al Senato

24 Dicembre 2008 § 1 commento § permalink

allevi

Alla fine di un precedente post, in cui si parlava della questione Kaplan-NY Philharmonic, facevo cenno all’impressione che mi aveva fatto vedere Giovanni Allevi snocciolare le sue banalità sonore al Senato, e vedere mezzo Parlamento italiano acclamarlo in piedi come fosse Stravinskij redivivo. La sensazione che avevo sentito dentro di me, e avevo subito cercato di comunicare agli amici, era stata di offesa: la sensazione quasi fisica di uno schiaffo. Si passa la vita a capire che cosa è buono e che cosa non lo è, a distinuere gli amici veri da quelli meno, a imparare a scegliere. Che Giovanni Allevi possa vendere migliaia/milioni/miliardi di dischi non è una cosa che mi offende: se li hanno venduti le Spice Girls, perché Allevi non dovrebbe? Perché la sua melodia allude alla tradizione classica? È la prova che quando il marketing coglie un’onda, la sa portare fino a riva fregandosene di qualsiasi diga o distinzione: negli anni abbiamo visto le case discografiche cavalcare i più disparati generi, scherzare con la politica, la cultura, la fede. Se si tratta di fare soldi, tutto può funzionare, e nessun cavallo è davvero zoppo: facciamo tornare il crooner alla Bublè, il cantante latino impegnato alla Manu Chao, il tenore alla Bocelli, il violinista alla Kennedy, il coro di monaci dell’abbazia cistercense. Potrebbero farcela anche con un quartetto di tube wagneriane, se solo trovassero il mix accattivante.

Ma a costo di farlo io, il vecchio trombone, devo dire che per me un concerto al Senato ha un valore diverso. Non è una sala che si affitta per i party aziendali; non è un teatro che si subappalta alle agenzie; non è uno studio televisivo, anche se c’è chi lavora indefessamente per farcelo diventare. Insomma, vedere quella che dovrebbe essere l’élite culturale e politica del paese (si pensi alla figura del senatore a vita), spellarsi le mani e inchinarsi davanti a un artista che ha fatto della faciloneria e della superficie la propria fortuna, mi ha fatto sentire offeso nel profondo. Giuro, proprio nel profondo.

Ma se oggi ci torno su, è perché per una volta i miei sentimenti hanno trovato espressione quasi letterale nelle parole di un artista verso il quale nutro sentimenti contrastanti, ma che sicuramente rappresenta qualcosa di infinitamente distante dal giovanissimo musicista-filosofo-poeta-creativo-a-tutto-tondo: Uto Ughi.

La bella intervista di Sandro Cappelletto sulla Stampa di oggi, riporta frasi intere di Ughi che sottoscriverei senza cambiare una virgola. Lo sconcerto sui consulenti musicali del Senato, il negare la parentela con la tradizione classica, la sensazione di un inquinamento della verità e del gusto, del furbo cavalcare un equivoco culturale. Solo quando parla del “trionfo del relativismo”, giusto perché so dove si va poi a parare, richiamerei un più semplice “qualunquismo” o una più universale “superficialità”. Non sarà certo un caso, se molti quotidiani nella versione on-line hanno ripreso un lancio d’agenzia che descriveva l’omaggio di Allevi, durante il concerto, al grande compositore Giovanni Puccini, di cui si celebra quest’anno il 150° anniversario. Per non parlare poi della presentatrice, Milly Carlucci, e del suo tono sfrontatamente, fastidiosamente triofalistico e genuflesso nei confronti del presidente del Senato e della maggioranza che lo ha insediato; tutto torna, se si pensa che Milly è la sorella dell’ineffabile Gabriella, la massima esperta di spettacolo che il governo del Cavaliere abbia saputo esprimere.

In quanto alla frase di Allevi, raggelante per ignoranza e presunzione, che Cappelletto riporta in chiusura dell’articolo (“La mia musica avrà sulla musica classica lo stesso impatto che l’Islam sta avendo sulla civiltà occidentale”), la accosterei alla fantasmagorica teoria estetica espressa altrove dal piccolo Leonardo: “stiamo tornando nel Rinascimento italiano, dove l’artista deve essere un po’ filosofo, un po’ inventore, un po’ folle, deve uscire dalla torre d’avorio e avvicinarsi al sentire comune”. Ma che Rinascimento ha studiato, Allevi?

Va bene che il Senato di questa legislatura non è certo un’Accademia platonica, ma porca misera, un po’ meno di acquiescenza bovina avrebbe fatto bene a tutti. Specialmente quando quelle manine che si spellano ad applaudire, sono poi le stesse che schiacciano il pulsantino del “sì” per votare dei pesanti tagli all’inutile cultura passatista. Una promessa concreta: più Allevi per tutti.

Il trombonista e il miliardario

21 Dicembre 2008 § 0 commenti § permalink

mahler_boehler

Un altro caso che fa riflettere sul diritto di critica, e sulle regole connesse. Molti ricorderanno il nome di Gilbert Kaplan, l’ex giornalista e prodigio di Wall Street, che dopo aver fondato un giornale finanziario nel 1965 e averlo diretto per molti anni, riuscì a venderlo nel 1990 per 72 milioni di dollari, dedicandosi poi quasi a tempo pieno allo studio e alla direzione di un’unica composizione, la Seconda Sinfonia di Gustav Mahler. Il ritratto migliore l’ha fatto nel novembre scorso l’Economist. Kaplan aveva sentito per la prima volta nel 1965 la sinfonia diretta da Stokowski e ne era rimasto letteralmente fulminato; all’epoca non sapeva neppure leggere la musica, ma era già una personalità rilevante della finanza mondiale. Negli anni la sinfonia “Resurrezione” divenne per lui quasi un’ossessione: passa mesi tra lezioni private di musica e di direzione da musicisti come Bernstein, Solti e Slatkin per venirne a capo; nel 1982 affitta il Lincoln Center, paga un’intera orchestra (la American Symphony Orchestra) e dirige per la prima volta la sinfonia dei suoi sogni davanti a un pubblico di economisti giunti a New York per un importante convegno. Fin qui nulla di troppo strano; di facoltosi dilettanti è piena la storia, e Kaplan non è stato né il primo né l’ultimo a togliersi uno sfizio gigante come quello di dirigere un’orchestra pagandola. Ma la vicenda di questo strano e a modo suo geniale personaggio è andata ben oltre. Oggi non solo ha diretto più di 50 orchestre, fra cui tutte le migliori del mondo – Scala compresa, nel 1992 – ma ha inciso la Seconda di Mahler ben due volte, la prima con la London Symphony, la seconda per la Deutsche Gramophon con i Wiener Philharmoniker. E, come se non bastasse, il primo dei due dischi, inciso nel 1985 per la Conifer, ha venduto più di 180mila copie, superando di gran lunga qualsiasi altro direttore, da Bernstein ad Abbado.

Ma c’è di più. Nel 1992 compra da una biblioteca olandese la partitura autografa della sinfonia, e la pubblica in fac-simile. Colleziona le decine di partiture a stampa contenenti le annotazioni autografe di Mahler, pubblica una nuova edizione critica integrandone le informazioni più rilevanti, scrive numerosi saggi e articoli. Il mondo della musicologia è diviso, ma nessuna voce critica si fa sentire con particolare forza: Kaplan sembra essere persona troppo intelligente e influente per attirare vere antipatie. Fino a qualche giorno fa.

L’8 dicembre scorso, infatti, Kaplan dirige per la prima volta la “sua” sinfonia con la New York Philarmonic; non è un’orchestra qualunque: è l’orchestra che Mahler stesso, negli ultimi e difficilissimi anni di vita, accettò di dirigere stabilmente, lasciando Vienna. È anche l’orchestra/simbolo del grande Lenny, uno che di Mahler se ne intendeva. Oltre tutto nella serata dell’8 si celebrava il centenario del compositore, e il concerto rivestiva pertanto una rilevanza tutta particolare. La serata andò come le precedenti: tutti sanno che il gesto di kaplan non è né elegante né comunicativo, che le sue esecuzioni non sono certo impeccabili, che a volte stenta a mantenere il controllo della difficilissima partitura, e via dicendo; ma qualcosa nel lavoro di Kaplan attira il pubblico e la critica, e forse la pubblica proiezione dell’idea di un sogno che si realizza non è estranea alla questione; fatto sta che la sala è, come del resto in quasi tutti i concerti di Kaplan, totalmente piena fino agli ultimi ordini di posti. Il New York Times manda un suo critico, che scrive il pezzetto d’ordinanza con qualche freddezza e molte lodi. Tutto tranquillo, apparentemente.

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Il 15 dicembre accade tuttavia l’imprevedibile. Uno strumentista dell’orchestra, il trombonista David Finlayson, apre un blog (Fin Notes) e scrive un post in cui manifesta tutto la sua indignazione per l’affronto subito dall’orchestra. Quello che scrive è quanto nessun critico ha mai avuto la voglia o il coraggio di scrivere: Kaplan non sa dirigere; è incapace di mantenere un tempo corretto, di dare una qualsiasi forma alle frasi, di realizzare le indicazioni dinamiche e di mantenere l’equilibrio sonoro; in numerosi passaggi solo la professionalità dell’orchestra lo salva dal disastro; persino la sua tanto sbandierata conoscenza enciclopedica della partitura è una bufala; insomma, il direttore è un autentico ciarlatano, paragonabile al personaggio interpretato da Brad Pitt in Prova a prendermi (Catch me if You can).

Apriti cielo. La notizia viene ripresa con grande risalto dallo stesso New York Times che aveva mandato il suo critico benevolo, e scoppia il caso. L’opinione pubblica, se ha ancora senso definire così le molte reazioni che giungono ai siti dei giornali e ai blog, è divisa, così come del resto lo è anche la critica. Alcuni sostengono che Finlayson ha tutto il diritto di esprimere quella che, a giudicare dall’articolo del NYT, è l’opinione condivisa da gran parte dei suoi colleghi. Che lo sbaglio, caso mai, l’ha fatto il management dell’orchestra, invitando una figura come Kaplan a dirigere da un podio dell’importanza storica e artistica della NY Philharmonic. Altri sostengono invece che il comportamento del trombonista è ingiustificabile, e che scrivendo quello che ha scritto è venuto meno ai suoi doveri di fedeltà e discrezione nei confronti dei colleghi e dei suoi datori di lavoro. In molti invocano persino una punizione esemplare, la sospensione o il licenziamento. Tra le voci decisamente critiche nei confronti di Finlayson si leva anche quella, sempre acuta e severa, di Norman Lebrecht (che tuttavia non nasconde la sua vecchia amicizia con Kaplan – e che pochi giorni prima aveva scritto una sorta di peana per l’avvenimento newyorkese).

finlaysonChi ha ragione? Finlayson doveva tacere o aveva il diritto di scrivere quello che ha scritto? Il fatto che a un facoltoso dilettante come Gilbert Kaplan vengano concesse possibilità che a molti direttori ben più capaci di lui saranno sempre negate è uno scandalo o un fatto del tutto normale? È strano, ma dovendo dire la mia, io sceglierei entrambe le risposte. Finlayson forse poteva (o meglio doveva) scegliere mezzi più ortodossi per manifestare il suo disappunto, che avrebbe dovuto colpire per primo il sovrintendente dell’orchestra. Ma che la qualità effettiva degli interpreti sia così spesso dimenticata da coloro che per mestiere dovrebbero garantirla (o che dovrebbero vigilare su di essa), a tutto vantaggio di aspetti economici o di marketing, è indubbiamente scandaloso, anche non rivestendosi della palandrana del moralista. Zarin Mehta, il sovrintendente dell’orchestra ha negato all’intervistatore del NY Times qualsiasi pagamento da parte di Kaplan, ma tutti sanno benissimo che le istituzioni musicali americane hanno un dannato bisogno di denaro privato, e il sostegno di una figura come Kaplan non è certo qualcosa da mettere in secondo piano. Ciò non toglie che quel concerto suonava veramente stonato. Dimenticavo: Kaplan dirigeva con la bacchetta di Mahler: sua anche quella.

PS. Stamattina ho assistito a un pezzo del concerto di Giovanni Allevi nella sala del Senato della Repubblica Italiana. A parte i toni da cinegiornale Luce dei commenti televisivi, sono rimasto molto impressionato da quel che vedevo e sentivo. Che cosa c’entra? Mah, è difficile spiegare, eppure c’entra…

Se il critico antipatico si ribella

15 Dicembre 2008 § 0 commenti § permalink

daumier_critico

Mentre le pagine musicali dei giornali di tutto il mondo e gran parte dei blog festeggiavano i due centenari di questo dicembre – quello di Carter, meravigliosamente creativo e longevo, e quello del grandissimo Messiaen – una notizia proveniente da Cleveland ha cominciato a serpeggiare per la rete, facendo nascere un dibattito discretamente rumoroso.

In poche parole la storia è questa: Donald Rosenberg è il critico di “The Plain Dealer”, il maggiore quotidiano di Cleveland, Ohio, città che come si sa ospita una delle 5 migliori orchestre americane (le cosiddette Big Five). Da quasi trent’anni Dan segue l’orchestra in tutte le sue uscite, sia cittadine sia in trasferta. È uno di quei critici localmente importanti, quelli che in America – come da noi – sono in qualche modo “embedded”: ha il pass per andare nei camerini dopo il concerto, può utilizzare alcune strutture del teatro per scrivere o inviare i pezzi, in caso di trasferta viaggia con i musicisti, ha un rapporto privilegiato con la dirigenza dell’orchestra, eccetera. Poi un giorno qualcosa comincia a cambiare. Rosenberg non sembra apprezzare incondizionatamente Franz Welser-Möst, il direttore austriaco nominato “music director” nel 2002 e, di rinnovo in rinnovo, garantito alla Cleveland Orchestra fino al 2018 (!). Continua a scrivere dell’orchestra in tono elogiativo, ma prende sempre più spesso le distanze dal direttore, tanto da far ritenere alla dirigenza dell’orchestra che possa trattarsi di una questione personale; cominciano le “presunte” pressioni sulla direzione del giornale, e soprattutto cominciano a essergli inviati i messaggi di scarso gradimento: niente più viaggi sul pullman dell’orchestra, la maschera che lo ferma mentre va ai camerini degli artisti dopo il concerto, l’accesso agli uffici che gli viene negato, i funzionari che non si fanno trovare. Insomma, il tipico incubo del critico caduto in disgrazia.

Finché nel settembre scorso, con una decisione che negli Stati Uniti fece abbastanza discutere, il giornale non comunicò al suo critico senior che non avrebbe più dovuto occuparsi della Cleveland Orchestra. Avrebbe continuato a scrivere di tutto, ma non dell’orchestra; a questa avrebbe pensato un altro critico, tale Zack Lewis. Era semplicemente stato “sollevato” dall’incarico, così come eufemisticamente si dice da noi.

Fin qui la storia non è del tutto inconsueta. Di giornalisti o critici scomodi, o comunque non amati, è piena la storia della carta stampata, e le loro rimozioni o i loro “silenziamenti” non sono stati pochi. Anche da noi. La notizia di questi giorni, però, annuncia un epilogo diverso: Dan Rosenberg ha citato in giudizio il suo giornale e la dirigenza dell’orchestra, accusando quest’ultima di una “campaign of vilification” (che lingua straordinaria, l’inglese!), con conseguente diffamazione e danno alla sua credibilità; il risarcimento è quantificato in 50.000 dollari, ma è chiaro che lo scopo della citazione in giudizio non è di carattere meramente economico.

rosenbergVedremo come andrà a finire, però è una notizia che fa riflettere. La pubblica discussione che ne è seguita tocca alcuni dei temi più importanti che riguardano la figura del critico e il suo ruolo nella società. Una parte dell’opinione pubblica si è schierata con il teatro: se il pubblico è contento di un artista, leggere una voce critica che si leva tanto ricorrentemente da essere quasi prevedibile può disturbare non solo la dirigenza dell’orchestra, ma anche i comuni lettori. L’altra posizione, apparentemente prevalente sui media, è quella che ritiene che anche un critico possa avere le sue idiosincrasie, e che finché egli le esprime con la dovuta professionalità, e motivando le sue affermazioni, non c’è motivo al mondo per cui dovrebbe essere rimosso dal suo incarico.

Vengono in mente i tanti casi in cui anche dalle nostre parti i critici hanno dimostrato un’antipatia (o una simpatia) ricorrente per un interprete; gli altrettanto numerosi casi in cui la critica si è dimostrata pavida o troppo benevola nei confronti di una determinata istituzione culturale o musicale; e i tanti casi in cui una certa istituzione musicale si è dimostrata aggressiva nei confronti della critica e persino della pubblica opinione. Viene in mente la Scala degli anni di Muti, e la sua posizione nei confronti della libera espressione delle opinioni: l’arroganza di voler decidere chi dovesse entrare e chi no alle rappresentazioni, le pressioni (sempre presunte, naturalmente) sui direttori dei giornali, persino la comica (ma non troppo!) presenza della forza pubblica nel loggione (i carabinieri, come in Pinocchio). E naturalmente la Scala è il caso più vistoso, ma non certamente l’unico. Qualcuno si ricorderà della lettera al direttore del Corriere, firmata da una buona parte della intellighenzia italiana, per chiedere la rimozione di Paolo Isotta, critico antipatico quant’altri mai. Insomma il mestiere del critico, nonostante il fatto che il suo ruolo sia diventato qualcosa di decisamente marginale nel mondo della comunicazione – e che i suoi spazi si siano ristretti di conseguenza – rimane percepito come qualcosa di instabile, di inevitabilmente soggetto alla benevolenza o al livore della classe dirigente.

In un mondo in cui gli sponsor contano quanto e talvolta più degli abbonati e degli spettatori affezionati, in cui dunque la comunicazione degli “eventi” si preoccupa di far giungere i suoi messaggi extramusicali a uno spettro ben più ampio di persone di quelle normalmente interessate alle recensioni, la critica musicale è diventata il retaggio di un mondo passato; li vedi in sala con l’aria dei giudici supremi, vedi come si pregustano la punizione per il tenore che ha stonato, il corno che ha scroccato, il direttore che ha preso il tempo troppo veloce; li vedi con l’aria mondana e compiacente mentre sussurrano gentilezze al sovrintendente, o pontificano per un ristretto pubblico di signore in ammirazione. La penna nel taschino, il programma di sala in mano, l’aria raramente felice. E senti che è un mestiere fuori moda, fuori dal tempo, come il bigliettaio sui tram, il portiere in livrea; un dinosauro tenuto in vita per lusso, per tradizione a esaurimento; un giapponese nella giungla che combatte una guerra finita da vent’anni: la guerra di quando un concerto o una serata d’opera non erano “entertainment”, ma eventi di cui era necessario stabilire il livello e il diritto d’accesso alla categoria del memorabile, testimoniata in eterno dalla carta stampata. Il critico era la memoria storica, il grande comparatore, il temuto e spiritoso intellettuale che staccava i biglietti d’accesso al tram della gloria artistica, il custode in livrea davanti al portone della fama meritata.

Oggi la sola idea di dedicare spazio a un evento a posteriori, quando cioè i biglietti sono già stati venduti e addirittura il fatto si è già svolto, sembra una cosa fuori tempo. La differenza tra cri
tica e attività promozionale è labilissima, come può testimoniare il mondo della pubblicistica letteraria (gli inserti dei quotidiani in primo luogo). I giornali e le televisioni sono straordinari veicoli di informazione pubblicitaria più o meno gratuita – lo scambio c’è, ma non si vede – e non hanno più alcun interesse per il ruolo dei custodi della memoria storica. Così la critica musicale, intesa come il severo e competente giudizio che arriva due o tre giorni dopo una serata di musica a cui hanno presenziato 1.000 persone a dire tanto, è qualcosa che non interessa più praticamente nessuno. A meno che… A meno che non si dimostri troppo scomoda, e allora diventa improvvisamente qualcosa di rilevante, un fastidio da rimuovere al più presto. Ecco che magicamente, attraverso l’antipatia e la malmostosità, il critico riacquista la sua dignità e il suo lustro. Contro di lui cominciano oscure manovre sotterranee, e l’indipendenza dell’informazione viene messa alla prova.

Ma il critico che ricorre al giudizio di un tribunale per difendere la propria dignità professionale, andando contro la dirigenza delle istituzioni culturali della propria città e persino contro la direzione del proprio giornale, non è una cosa consueta; è un colpo di coda inaspettato. L’appello alla legge perché venga sancito il sacrosanto diritto a essere fuori dal tempo – la privata liceità e soprattutto la pubblica utilità dell’essere antipatico – è una novità da seguire con interesse.

Immagine in alto: Il critico, incisione di Honoré Daumier. Più sotto: Daniel Rosenberg, foto di Allison Carey/The Plain Dealer.

Buon compleanno, Krystian!

5 Dicembre 2008 § 1 commento § permalink

Così per rompere il silenzio, facciamo gli auguri a Krystian Zimerman, che è nato 52 anni fa a Zabrze, in Slesia (Polonia). E per festeggiarlo, ci possiamo gustare questo bellissimo documento: la Mazurca che suonò in quella magica serata del 1975 in cui, a 18 anni, vinse lo Chopin di Varsavia. Quell’incredibile controllo, quell’incandescente distacco che ce lo fanno amare c’erano gia tutti.

A Nackerter im Hawelka!

8 Novembre 2008 § 0 commenti § permalink

danzer

Che ci fa un uomo nudo da Hawelka? Visto che a parlare di caffè viennesi si passa subito per nostalgici, ecco il link al video di una famosa canzone di Georg Danzer: Jö schau! (che vorrebbe dire Hei guarda!). Danzer è un cantautore viennese morto nel 2007, portato al successo nel 1975 proprio da questa canzone, famosissima in Austria; da lì nacque il famigerato austropop, il genere dominante per decenni nei palinsesti delle radio locali. Parla di un cliente che vede entrare un uomo nudo da Hawelka: è cantata in viennese stretto, praticamente incomprensibile fuori dal Graben e dintorni (chi volesse provare a tradurla, si accomodi). La cosa divertente è che nel video, molto anni Ottanta, si vedono Leopold Hawelka e signora nel loro locale, nonché una buffa ricreazione della clientela tipica. Un simpatico tizio ha provato davvero a entrarci, nudo o quasi, da Hawelka, e a far filmare le reazioni dagli amici; e questa volta, insieme a uno sconcertato Leopold si vede anche il figlio Günther, che lo tira per un braccio. Spirito viennese: un po’ greve alla lunga, ma sempre divertente

Ancora guerra e pace, ancora Gergiev

29 Ottobre 2008 § 0 commenti § permalink

Piccolo aggiornamento sull’uso politico della musica. Il 19 ottobre scorso, in un concerto dedicato ai sessant’anni dalla fondazione dello Stato d’Israele, Valeri Gergiev ha diretto a Gerusalemme la World Orchestra for Peace, l’orchestra fondata nel 1995 da Georg Solti che raccoglie 90 musicisti provenienti da 70 orchestre di tutto il mondo – una specie di dream team dedicato alla pace con alcuni tra i migliori strumentisti esistenti. Si possono leggere i dettagli della serata in quest’articolo del Jerusalem Post; alla fine dell’articolo si può leggere tuttavia anche un’inquietante notizia, la stessa che riporta Norman Lebrecht in uno dei suoi informatissimi pezzi: il concerto di Gerusalemme era sostanziosamente sponsorizzato da Arcadi Gaydamak, il controverso oligarca russo (o meglio anglo-canado-franco-israeliano!) che sta correndo per la carica di sindaco della città. Il problema è che Gaydamak è attualmente sotto processo a Parigi per il cosiddetto Angolagate, una brutta storia di armi fornite al governo angolano poco prima della recrudescenza della violentissima guerra civile che ha insanguinato il paese africano, portando centinaia di migliaia di vittime, in massima parte tra la popolazione civile: sotto processo non vuol dire colpevole, ma che un concerto dedicato alla pace sia sostenuto da un uomo d’affari sospettato di essere un trafficante d’armi (e di molte altre cose, v. biografia su wikipedia), in corsa per una delicatissima carica politica è un fatto che salta all’occhio. Come al solito non si può accusare nessuno di ipocrisia o, peggio ancora, di malafede, tanto meno un musicista come Gergiev, ma tutto questo non fa che sottolineare ancora una volta come se si lasciasse in pace la musica, e non la si mischiasse sempre e a tutti i costi con la pace, la guerra, la politica e la storia, tutti ne usciremmo sollevati e alleggeriti.

Canti di guerra, canti di pace

23 Agosto 2008 § 0 commenti § permalink

georgia

In un mondo in cui la musica torna ad essere uno strumento di comunicazione politica con sempre maggiore frequenza, non può stupire quanto è successo ieri l’altro nella capitale dell’Ossezia del Sud, Tskhinvali. Mentre ancora le diplomazie internazionali discutono sulla realtà del ritiro russo dal territorio osseto (o georgiano, a seconda di come si voglia leggere questa difficilissima crisi), Valeri Gergiev ha diretto l’Orchestra Filarmonica di San Pietroburgo davanti al municipio cittadino, gravemente danneggiato dal bombardamento georgiano. Ne scrive, sulla Repubblica di oggi, in terza pagina, l’inviato Renato Caprile, con un tono che fa trapelare un certo filoatlantismo; il pezzo si chiude con la traduzione del discorso tenuto da Gergiev prima del concerto, prima in russo e poi in inglese. Nella versione di Caprile, Gergiev dice una cosa che non viene comfermata da nessun altro dei numerosi giornali stranieri che hanno dedicato spazio alla notizia. “Sono qui per testimoniare tutto il mio dolore. Sono osseto come voi e come voi spero che cose del genere non si ripetano mai più. Ma tutto il mondo deve sapere di questa distruzione e dei nostri duemila morti”: questo è quello che avrebbe detto Gergiev (“Poi per fortuna la parola passa finalmente alla musica”, chiosa l’inviato di Repubblica). I duemila morti sono quelli che la diplomazia russa tenta di far accreditare come conseguenza dell’attacco georgiano; un dato tutto da provare, su cui molto si discute. Se è corretta la versione di Caprile, Gergiev avrebbe fatto un’affermazione tutt’altro che portatrice di pace.

Gergiev è nato a Vladivkavkaz, capitale dell’Ossezia del Nord (e dunque di quella parte del territorio osseto compreso nella Russia); anche sua moglie Natalya è osseta, e per la piccola e contestata repubblica indipendente caucasica, il frenetico direttore d’orchestra è il figlio più illustre, l’artista che riscatta agli occhi del mondo un intero popolo oppresso. Su queste basi non c’è da dubitare sulla sincerità di un gesto di inconsueta forza e di indubbio coraggio. Ma naturalmente c’è dell’altro.

gergiev_putin

Il concerto è stato presentato ai media come un solenne requiem per i morti del bombardamento georgiano; un grande concerto per la pace, trasmesso in diretta dalla televisione russa. Il legame fortissimo tra Gergiev e Putin è noto (“sono parenti” dice Caprile; in realtà Gergiev ha fatto da padrino alle due figlie di Putin, e questi ha ricambiato facendo altrettanto per uno dei figli di Gergiev). Un’amicizia saldissima, che ha come conseguenza gesti plateali di sostegno e appoggi meno vistosi ma altrettanto significativi. Quello che viene da chiedersi è quale sia il valore di un concerto per la pace in cui si afferma con forza il ruolo di salvatore della Russia di Putin, e in cui si accredita internazionalmente la versione russa, mentre ancora è dubbio se i combattimenti siano davvero cessati, quale sia il numero delle vittime, se vi sia stata o meno una qualche forma di “pulizia etnica”, e da quale parte sia stata condotta.

Un gesto per la pace che è in realtà uno straordinario gesto dalla valenza prettamente, violentemente politica. In una piazza interamente russa, la maggiore istituzione musicale russa suona due autori russi, Čaikovskij e Šostakovič, per ricordare le vittime russe. Tutto questo all’interno di quello che i georgiani considerano ancora proprio territorio, e dove comunque si suppone (e si spera) che ancora risieda una parte di comunità georgiana. Le composizioni scelte non sono meno cariche di significati politici: la Quinta di Čaikovskij e la Settima di Šostakovič, due sinfonie legate per motivi diversi a un evento centrale della storia russa, l’assedio nazista a Leningrado. L’equiparazione tra i due momenti storici è stata poi espressamente ribadita da Gergiev. Tskhinvali come Leningrado. Se non è politica questa…

Ciò che potrebbe stupire è la prudenza con cui gran parte dei media internazionali hanno trattato il concerto, prudenza che ricalca per molti versi quella tenuta nei confronti dell’intera crisi osseta. Tutta questa esaltazione del ruolo di salvatore della Russia, tutto questo sventolare di bandiere russe e di valori russi a sostegno di una minuscola repubblica che si proclama indipendente? Ma indipendente da chi, solo dalla Georgia o proprio da tutti? Ma quello che importa qui non è certo stabilire a chi spetti il ruolo di invasore e a chi quello di carnefice, quanto sottolineare come ancora una volta la musica sia diventata un potente mezzo di propaganda politica, in un processo nel quale alle note sono sovrapposti significati che finiscono per annegarle in uno spaventoso frastuono di cingolati. Anche se tutto fosse stato fatto con le migliori intenzioni.

AGGIUNTA DEL 14 NOVEMBRE 2008. Ecco il link al video di Youtube dove in inglese Gergiev parla effettivamente dei 2000 morti dell’attacco giorgiano.

Nella prima foto, il pubblico assiste al concerto di Gergiev a Tskhinvali. Foto di Joao Silva per The New York Times.

Io non sono che un critico

6 Agosto 2008 § 2 commenti § permalink

otello

Mettiamo che uno voglia capire come è andato l’Otello diretto da Muti a Salisburgo. Mettiamo che apra il «Sole24ore». Carla Moreni: “Quanto è nuovo, audace, tragico e radicalmente diverso da tutte le interpretazioni mai sentite di Otello questo di Riccardo Muti a Salisburgo”; e giù, una sbrodolata sul cavaliere solitario (“straordinariamente solo, su una strada di teatro che nessun altro poi percorrerà”), propagatore incompreso del bello, attorniato da una manica di incapaci. E ancora: “Quando c’è Riccardo Muti sul podio, e sempre di più negli ultimi tempi, come in un gesto di deliberata solitudine o solipsismo, la clessidra del teatro parte solo dal podio”. Ma accanto al registro lirico, Moreni usa anche quello sarcastico, principalmente nei confronti del regista e della sua orrenda pedana di plexiglas: “lì ha luogo quasi sempre l’azione. Tutti fermi, impalati come manichini”. Boh, che strano, questa storia dei cantanti impalati mi ricorda qualcosa… Ma no, andiamo avanti. La compagnia di canto: mediocre, incapace di seguire la siderale visione del Maestro. Ancora un’offesa al Grande: lui, incompreso, solo, geniale e sconfitto. Gli impongono una compagnia mediocre. A parte Alvarez, dice Moreni, “gli altri sono corretti”, ma la loro correttezza “non è di Verdi”, come a dire, ‘non è di Muti’. Ma che strano, anche questa cosa delle regie e dei cast mediocri mi ricorda qualcosa… Ma no, dev’essere stata una serata meravigliosa. Che peccato non essere lì. Grazie di avercelo raccontato con tanta passione, Moreni.

Mettiamo poi che il nostro amico apra la Repubblica. “Muti illumina la violenza di Otello” urla il titolo. Dino Villatico: “a prevalere è lo scatenarsi di una violenza esasperata, sul limite della rottura degli equilibri sonori e del rumore. Ma proprio per questo il capolavoro verdiano sembra acquistare una luce nuova: lo scavo nell’ inferno delle passioni, come sempre sospese nell’ irreale di un mondo come lo si vede e non come è, proietta un’ombra cupa, amarissima sulla visione che l’ ultimo Verdi ha della vita. Verdi, sotto la bacchetta di Muti, è il compositore della disperazione senza speranza”. La disperazione senza speranza! Ah, come dev’essere stato profondo, questo spettacolo! Come il mare, profondo ed infinito! Però Villatico sullo spettacolo è più prudente “Sulla scena si vede uno spettacolo bellissimo, ma non di uguale forza interpretativa”. Un colpo al cerchio e uno alla botte. È bello ma non tanto bello quanto quello che fa Muti, e la sua ottima compagnia di canto (“dolcissima, incantevole” Desdemona, “un personaggio complesso” Otello, “sottile, diabolico e per nulla trucido” Jago). Insomma, una grande serata, anche sul fronte vocale. È Moreni che, come al solito, è un po’ ipercritica.

riccardomutiMa il nostro amico si vuole documentare, e compra anche il Corriere. Va beh, Paolo Isotta. Uffah! Però dicono che sia colto, che diamine, leggiamo! “Il meglio diretto che abbia mai ascoltato (Riccardo Muti)”. Addirittura! e con tanto di parentesi, casomai qualcuno avesse dei dubbi. Isotta non riesce a comprendere le contestazioni al tutto sommato pregevole e onesto regista, e cerca conforto in “una straordinaria pagina del Gibbon su Costanzo II”. Con il risultato che non riusciamo a spiegarcele neanche noi, le contestazioni. Ma la musica? “Quest’ Otello concertato da Muti è di un suono sontuoso, rutilante eppur trasparente, che fa vibrare tutta la sala dai vertici dell’ottavino alle note gravissime del cimbasso”. Diavolo di un Isotta. Il cimbasso. C’è sempre qualcosa da imparare. Un euro speso bene. E la compagnia? Ottima, e dove non lo è lo diventerà. Che vuol dire lo diventerà? “Antonenko: diciamo che se non è oggi un Otello perfetto lo sarà domani”. Ma certo, chi lo ha scelto ha peccato per preveggenza. È la passione: si sa, non tollera attese.

Ora il nostro amico è preparatissimo. Ha maturato la sua idea. Che spettacolo! Che direttore! La disperazione dell’ultimo Verdi! Senza speranza! Può affrontare qualsiasi discussione: è come se quel 1° agosto di Salisburgo, benedetto da Apollo e da Dioniso, ci fosse stato anche lui al Grosses Festspielhaus. Ma a Roma non se lo farà scappare, il grande spettacolo. Sarà lì, il 6 dicembre. Il giorno prima di Sant’Ambrogio. Muti è un grande, non è vendicativo.

Mettiamo ora che il nostro amico compri un biglietto di treno, e passi la frontiera. A Chiasso, per far piacere a Arbasino, o dal Frejus, o da dove vuole lui. Mettiamo che si trovi a chiacchierare con un appassionato d’opera inglese, o tedesco, o francese, o americano. Il discorso cade sull’Otello di Salisburgo. Questa la so, dirà il nostro omino: “Ah, la meraviglia, la solipsistica grandezza del direttore, la disperazione senza conforto dell’ultimo Verdi! Peccato il cattivo regista, che ha ingessato i cantanti; peccato la compagnia, con luci e ombre, forse non all’altezza del grande direttore! ma si sa, i grandi direttori, come eroi romantici, devono lottare contro le avversità del destino. E il destino aveva scelto per loro quei cantanti”.

Mettiamo ora che invece di incontrare l’ammirazione dei suoi interlocutori li veda sganasciarsi dalle risate. Mettiamo che aprano le loro valigie, e gli mettano davanti agli occhi tutti i giornali del mondo, o meglio quei pochi fra i giornali o siti internet del mondo che non ignorano quel club per miliardari sprassolati che si chiama Festival di Salisburgo! Il nostro amico forse mastica un po’ di lingue e, piano piano, cercherà di decifrare gli articoli che gli squadernano di fronte.

Orrore! Come in un incubo, come nello specchio deformante di un luna-park! tutte le sue certezze in fumo! ma come è stato possibile? Neanche uno che capisca la disperazione dell’ultimo Verdi! Il grandioso solipsimo del nostro direttore, il Grande Diseredato! NZZ: “Riccardo Muti è responsabile di molti problemi: semplicemente, suona così forte da non lasciare spazio a nessuno”. Ignoranti! Bloomberg: “La compagnia restava imbambolata, il più vicino possibile alla ribalta, con gli occhi fissi a Muti… Il Verdi di Muti è esplosivo, teso e carico di energia grezza. Ma è anche fracassone, brutale e sgradevolmente autocratico”. Dannati americani, cosa possono capire della clessidra del teatro! Non se lo meritano, a Chicago! La Berliner Zeitung: “Niente da dire: Riccardo Muti viene da una lunga tradizione verdiana. Ma è proprio questo il problema: non viene soltanto, lì rimane e non fa che riprodurla”. Come? E il “nuovo, audace” Otello di Moreni? Berlinesi provinciali, cosa ne sanno loro di innovazione! Per fortuna il Figaro non ci tradisce con parole simili ai nostri beneamati, ma per il resto è un disastro. Il Tagesspiegel? “Quello che [Riccardo Muti] fa di una delle partiture più intelligenti e avanzate rasenta lo scandalo. Si tratta del solito trucco: finché suoni fortissimo, nessuno si accorge di nulla”. Screanzati! E il cimbasso, dove lo mettiamo? Ma non è finita. Basta fare una ricerca su internet: uno sfacelo. Nessuno trova le parole alate, i trasporti lirici dei nostri critici. Se non si fosse trattato di un’unica recita, si potrebbe dire che la critica italiana non ha visto lo stesso spettacolo degli altri.

Come mai? Come è potuto succedere, si chiederà il nostro omino sbeffeggiato? Può essere che la nostra gloriosa e coltissima critica sia macchiata di sordido provincialismo? Oppure sono questi tedeschi, questi austriaci, questi inglesi e americani che non capiscono il vero genio musicale, perso su una strada di teatro che nessun altro poi percorrerà?

Mistero fitto. E neppure una riga del Gibbon a darci una mano.

APPENDICE DELAGOSTO 2008: aggiungo la Frankfurter Allgemeine Zeitung (FAZ), e la sua severissima stroncatura, intitolata “Un carrozzone di esibizionismo musicale”: “Il maestro, fedele alla sua fama di spregiatore del teatro di regia, si è anche premurato che il regista se ne stesse obbediente in riga” (ma porca miseria, bisogna andare a Francoforte per leggere questa semplice verità? Forse Moreni non la sa?); e ancora: “Riccardo Muti ha condotto i navigati Wiener Philharmoniker come un carrozzone di lusso attraverso questa opera profonda ed ambigua. Tanto sportivo, veloce, liscio, e furbesco, da farci pensare che ad ogni battuta ci dicesse «qui mi trovo a mio agio». Tutto risuonava di un sound monotono ma risplendente, che aveva una sola qualità: il volume forte. Un carrozzone di esibizionismo musicale sotto il cui ingombro i cantanti, tra i quali il ben preparato, anche se del tutto privo di colore, Otello di Aleksandr Antonenko, non potevano che soffrire”. Ma a noi italiani, cosa ci manca per poter leggere degli articoli così?

Buon compleanno, sopratitoli!

16 Luglio 2008 § 2 commenti § permalink

salome

Forse, se si dovesse indicare l’evento che ha più profondamente modificato la storia della recezione del teatro d’opera negli ultimi trent’anni, non bisognerebbe guardare alle novità di cartellone, alle innovazioni registiche o a quelle manageriali. Bisognerebbe semplicemente alzare lo sguardo al boccascena, e fissare quelle due, a volte tre righe di testo luminoso che sovrastano i cantanti. Bisognerebbe osservare quel movimento ritmico che l’intero pubblico in sala fa con gli occhi (o con l’intera testa), ogni dieci, venti o trenta secondi, per l’intera durata dello spettacolo.

I sopratitoli quest’anno compiono il loro primo quarto di secolo. La loro introduzione in quella che sembrava una forma spettacolare immobile nel suo rituale codificato – in realtà mobilissima, come tutte le forme di spettacolo dal vivo – si deve a Lofti Mansouri, il manager-sovrintendente, iraniano di nascita e americano d’adozione, che nel gennaio del 1983, in occasione di una produzione della Elektra di Strauss della Canadian Opera Company a Toronto, chiese la proiezione del libretto su uno schermo orizzontale posto sulla cornice del palcoscenico (boccascena). Fu l’inizio di una piccola rivoluzione, dapprima tutta americana, in seguito, con insolita rapidità, accettata in tutto il mondo. Il nome che in un primo momento prese questa innovazione tecnica fu Surtitles, anche se, con spirito tutto anglosassone, il marchio fu immediatamente registrato dalla Canadian Opera Company, e dunque da allora in poi per il resto del mondo anglofono il termine da usare per evitare di pagare royalties fu Supertitles, manco fosse un gruppo di supereroi (in realtà, il termine originale canadese è rimasto quello più diffuso, anche se non viene mai messo per iscritto). Negli Stati Uniti fu la grande Beverly Sills, allora manager della New York City Opera, a introdurli per la prima volta, nel settembre del 1983, in occasione di una produzione di Cendrillon di Massenet al New York State Theater.

Il debutto italiano di quelle che per un po’ di tempo furono popolarmente definite, con un termine meno scioccante per il mondo della lirica, “didascalie”, avvenne il 1° giugno del 1986 in una produzione dei Meistersinger al Maggio Musicale Fiorentino; la loro importazione si deve presumibilmente a Zubin Mehta, di casa tanto a New York quanto a Firenze, ma trovarono da subito un sostenitore brillante, autorevole e influente in Sergio Sablich, che non solo firmò la prima traduzione (anche se in questo caso sarebbe più giusto definirla “sceneggiatura”), ma li sostenne sempre e ovunque contro l’antipatia della critica più conservatrice. Antipatia che durò per anni, e che fu tutt’altro che leggera.

Quello fiorentino era il debutto europeo dei sopratitoli, e dovettero passare ancora degli anni perché essi fossero accettati ovunque. In Italia una parte della critica li accettò con una certa indifferenza (“non hanno disturbato lo spettacolo”, scrisse Giorgio Pestelli, “non ha dato troppo fastidio” Bortolotto), altra parte fu severissima (“una scelta di un provincialismo turistico riprovevole” scrisse, comicamente, Duilio Curier).

Che io sappia, la prima proiezione di sopratitoli di un libretto in lingua italiana fu fatta a Torino in occasione del Mitridate di Mozart il 28 aprile del 1995; li volle Carlo Majer, allora direttore artistico del Teatro Regio, che non solo dall’anno precedente li aveva richiesti per tutte le opere in lingua straniera, ma che dopo una serie di esperimenti e messe a punto, li rese una presenza stabile per tutte le opere rappresentate, indipendentemente dalla lingua del libretto.

In Italia la prima realtà a farne il proprio business fu la Eikon, azienda con sede all’Impruneta (Firenze), fondata dall’imprenditore e fotografo pubblicitario Nedo Ferri; per più di dieci anni dominò incontrastata il mercato, e solo nel 1996 nacque Prescott Studio, di Mauro Conti, storico maestro del Teatro Comunale di Firenze ed ex collaboratore di Ferri. Oggi molti teatri si sono attrezzati autonomamente, ma le due aziende concorrenti continuano a fornire il loro servizio a molti teatri d’opera e di prosa.

Anche dal punto di vista tecnologico molte cose sono cambiate. Le prime proiezioni erano decisamente riassuntive, poiché si avvalevano di proiettori di diapositive di alta qualità ma fisicamente imponenti e farraginosi da utilizzare. La Eikon per prima si fece creare un programma per Apple Macintosh che metteva in sequenza diversi proiettori, in modo da rendere il lavoro del maestro collaboratore addetto alla proiezione più semplice. Poi sono arrivati anche i videoproiettori, sempre più potenti e competitivi, tali da rendere in parte obsoleta la vecchia diapositiva (ma molti preferiscono ancora il lavoro fotografico). Infine i tanti display luminosi.

Ma più che l’innovazione tecnologica, ciò che più colpisce è la trasformazione estetica e nella recezione che i sopratitoli hanno provocato. Se qualcuno facesse una statistica confrontando il numero di Ring o di produzioni di Janačék nei teatri europei prima e dopo l’introduzione dei sopratitoli, sono sicuro che scoprirebbe un fortissimo incremento. I sopratitoli hanno spalancato le porte dei teatri a titoli fino a non molto tempo fa programmabili solo come rarità per intenditori, e alimentato una ripresa di interesse da parte del pubblico di dimensioni straordinarie nei confronti dei titoli meno accessibili. Hanno dunque contribuito a rendere lo spettacolo lirico un’esperienza meno dedita alla ripetizione di sé stessa, e più vicina alla sensibilità culturale odierna.

Presumibilmente il loro viaggio non è finito. Alcuni teatri già proiettano i testi in più lingue (la Florida Grand Opera di Miami, per esempio, offre le traduzioni spagnola e inglese affiancate). Altri, dal Metropolitan alla Scala, hanno optato per dei sistemi apparentemente più discreti come i cosiddetti “videolibretti”; dico apparentemente perché in realtà richiedono lo stesso sforzo concettuale e, soprattutto, lo stesso mutamento di modalità recettiva (“Opera is not a reading experience!”, tuonava anni fa il direttore di «Opera News»). Altri ancora immagino che prima o poi decideranno di recedere da un elemento che, comunque lo si voglia intendere, rimane piuttosto invasivo; saranno aiutati in questo da nuove tecnologie, come la distribuzione di palmari all’ingresso a chi ne facesse richiesta, o da chissà cos’altro. L’assenza di sopratitoli diventerà così parte di una nuova filologia dell’ascolto.

È difficile da dire che cosa ne sarà in futuro, ma ciò che è innegabile è che da servizio accessorio i sopratitoli sono diventati parte integrante dello spettacolo e del modo di goderlo. Sono diventati una delle tante competenze artigianali necessarie allo spettacolo dal vivo.

Dunque: Buon compleanno, sopratitoli!

Una fontana di lacrime al Barbican

15 Aprile 2008 § 0 commenti § permalink

Ainadamar al Barbican Centre di Londra in forma di concerto – e devo dire che risulta difficile immaginarla in scena, tanto poca azione drammatica quest’opera da camera contiene. La storia ha per protagonista Margarita Xirgu, la grande attrice catalana che riparò a Cuba prima del franchismo e diffuse in America Latina, dopo la fucilazione del poeta nel 1936, il teatro di Federico García Lorca. L’opera si articola in tre scene della durata complessiva di circa un’ora e mezza.

La prima scena (o “immagine”, come la definisce Golijov) si svolge in un teatro di Montevideo, dove Margarita, ormai vicina alla
morte, ricorda a un’allieva l’incontro con Lorca e tenta di
trasmetterle il giusto pathos per interpretare il personaggio di
Mariana Pineda. La seconda scena si concentra intorno al personaggio di Lorca, e Margarita immagina la scena della sua fucilazione vicino alla “Fontana delle lacrime”, la Ainadamar del titolo. La terza scena è un crescendo onirico di identificazione tra il poeta, il personaggio, l’attrice e l’allieva, culminante nella famosa “ballata” della Mariana Pineda “Io sono la libertà” (Yo soy la Libertad porque el amor lo quiso!…).

La prima osservazione da fare è che il libretto di David Henry Hwang è molto brutto e antidrammatico, e l’effetto era impietosamente amplificato dai sopratitoli inglesi e dall’arrivo dei versi di Lorca, che spiccano come diamanti nella sabbia. Per un buon tratto dell’opera si percepisce un forte intento didattico (tutto è spiegato, raccontato, quasi come in una cantata sovietica), e alcuni trasporti lirici sulla Revolucion suonano davvero piuttosto ingenui.

La musica è Golijov al quadrato. Chi non ama i compositori che fanno leva sui sentimenti lasci stare Golijov: da questo punto di vista la sua musica è quasi spudorata. La sua forza è uno strano miscuglio di intelligenza, senso della forma, ricerca espressiva e, appunto, spudoratezza sentimentale. Se si pensa ai fischi che Henze riceveva in teatro per opere come Boulevard Solitude, che in confronto ad Ainadamar è praticamente il Wozzeck, ci si chiede che fine abbiano fatto tutti quegli intransigenti e attivissimi guardiani del progresso artistico. Il pubblico, come ormai succede quasi regolarmente per questo tipo di musiche, era letteralmente entusiasta, e si è spellato le mani e arrochito la voce per una buona decina di minuti.

Certo, al successo hanno contribuito molto le belle e drammaticissime voci di Dawn Upshaw (Margarita), Kelley O’Connor (García Lorca), e lo spettacolare cantante gitano Jesús Montoya, nella parte del traditore Ruiz Alonso. L’orchestra non era a proprio agio, e si potevano spesso percepire dei forti problemi di equilibrio tra le voci amplificate, l’orchestra, il gruppo di flamenco amplificato e il coro femminile. Un equilibrio delicatissimo, che richiede inevitabilmente un attento lavoro al banco di missaggio, più che le istruzioni di un direttore, per quanto bravo come Robert Spano.

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