Esiste un “problema” Steiner?

6 Maggio 2009 § 3 commenti § permalink

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Il 23 aprile scorso George Steiner ha compiuto ottant’anni. Sui giornali italiani sono apparsi alcuni articoli, come questa interessante ma, se posso permettermi, un po’ superficiale intervista di Nuccio Ordine per il “Corriere della Sera”: tra le cose più rilevanti che vi sono dette, l’invito a leggere le opere di D’Arrigo, un gigante ‘diverso’ della nostra letteratura. Ma l’articolo più bello che abbia letto da diversi anni su Steiner è apparso il 12 marzo scorso sul “New York Times”. Si tratta di una recensione del suo ultimo libro, una raccolta di articoli pubblicati sul “New Yorker” (George Steiner at the New Yorker, New Directions, 2009, traduzione italiana già in preparazione presso Garzanti).

Vi si parla di un “problema George Steiner”, conducendo un’analisi intelligente e profonda del suo stile letterario, del suo talento critico e delle sue principali e ricorrenti idee. Vi si parla, in particolare, dei dibattiti che nel mondo anglosassone facevano seguito a ogni suo libro, con una parte della critica e del mondo accademico che lo riteneva un mezzo ciarlatano, e un’altra parte di entrambi i mondi (ma soprattutto una larghissima platea di lettori) che lo considerava uno degli ultimi depositari del grande e minacciato tesoro della cultura occidentale. Scrive in particolare Lee Siegel:

Celebrato come un bastione della cultura alta occidentale e ammirato per la sua sottigliezza morale da alcuni, Steiner fu attaccato come pomposo, pretenzioso e scientificamente inaccurato da altri. La sua più esaltante qualità era considerata il sapersi muovere da Pitagora, attraverso Aristotele e Dante, a Nietzsche e Tolstoj in un singolo paragrafo. Il suo difetto più irritante il sapersi muovere da Pitagora, attraverso Aristotele e Dante, a Nietzsche e Tolstoj in un singolo paragrafo.

Ciò che mi ha colpito di quest’articolo, non è stato solo il constatare quanto la nostra critica si dibatta in un’ormai atavica indolenza intellettuale, per cui di fronte a ogni dubbio meglio dire qualche parola generica di lode e lasciar cadere; ciò che mi ha colpito, dicevo, è la serenità con cui l’autore di grandi libri come After Babel (Dopo Babele, Garzanti) viene indagato e criticato, nonche l’acutezza con cui i suoi tic intellettuali vengono portati alla luce. Condivido molto di quello che l’autore scrive, ma questo non mi impedisce di collocare alcuni dei libri di Steiner tra le cose migliori che mi sia capitato di leggere (tre su tutti: oltre a Dopo Babele, la raccolta di saggi Nessuna passione spenta – Garzanti 1997– e, forse un po’ in subordine proprio per i difetti indicati nell’articolo, Grammatiche della creazione – Garzanti 2003); altri mi sono sembrati decisamente inferiori, ma in ogni caso mai privi di stimoli.

Vorrei citare la chiusura dell’articolo, che riguarda l’ossessione di Steiner nei confronti dell’Olocausto come prodotto vertiginoso e inspiegabile della civiltà culturalmente, artisticamente e filosoficamente più evoluta dell’intera storia dell’umanità. Il modo in cui Steiner si interroga affannosamente su come ciò sia potuto accadere, rappresenta per il lettore, secondo Siegel, un forte elemento di fascino e di interesse, ma non per il motivo che ci potremmo aspettare:

Recitare a memoria questi eleganti enigmi morali è stata la maniera di Steiner per spingere il lettore verso la cultura per poi fornirgli una via d’uscita. Dal fuoco prometeico discende la distruzione: se avete il tempo di dedicarvi ai tesori della cultura occidentale, bene; se non ce l’avete, consideratevi ugualmente fortunati. In sostanza l’orrore di Steiner per il fatto che gli strumenti della civiltà – il linguaggio e persino la stessa razionalità – sono stati anche gli strumenti della barbarie rappresenta un palliativo per la tormentata coscienza del lettore. Non avete finito il romanzo di Proust? Essere buoni, o almeno non mostruosi, è un traguardo migliore. Steiner potrà anche continuare a essere un problema per qualcuno, ma come critico ha efficacemente offerto una soluzione bifronte al vostro desiderio di conservare l’attaccamento alla cultura dopo le lunghe e piacevoli frequentazioni universitarie. Ha mantenuto i lettori nel mondo della letteratura e delle idee, e al tempo stesso li ha liberati dai sensi di colpa nel momento in cui il loro interesse si stava assottigliando.

Beh, questo è davvero recensire. Si potrà essere o non essere d’accordo, e anche esserlo a metà (la mia situazione); è tuttavia innegabile il fatto che così scrivendo si invita a riflettere e a osservare con attenzione sé stessi e il libro recensito.

Ma in ogni caso: buon compleanno, George!

Quella certa idea di Steiner

18 Ottobre 2007 § 1 commento § permalink

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George Steiner ci ha abituati a una scrittura che si fa quasi venerare per il suo controllo stilistico, la sua passionalità intellettuale e lo sfoggio di una tale ricchezza di rimandi e associazioni da diventare la quintessenza stessa di ciò che normalmente definiamo “cultura”; ma ci ha anche abituati a posare i suoi libri pieni di illuminanti idee e di insistenti dubbi. I suoi fuochi d’artificio sulla responsabilità del critico in Linguaggio e silenzio, la sua visione del processo di traduzione in Dopo Babele, le intuizioni di Grammatiche della creazione arricchiscono la vita intellettuale e la sensibilità del lettore in maniera si potrebbe dire ‘irreversibile’. Ma spesso hanno un fondo di incompletezza che si riverbera nell’animo del lettore in un supplemento di discussione. È tutto straordinariamente argomentato, ma indissolubilmente legato alla personale visione e intelligenza del suo creatore.

Questo vale in misura anche maggiore per questo strano libretto. Strano in molti sensi: una trentina di pagine di Steiner, provenienti da una lezione al Nexus Institute di Amsterdam, precedute da una Introduzione di Rob Riemen, direttore dell’Istituto, e da uno scritto di Vargas Llosa che contraddice apertamente le idee di Steiner. Invitato a fornire una sua definizione di Europa, Steiner articola la sua visione su cinque ‘assiomi’, tutti fortemente letterari e culturalmente stimolanti: i suoi caffè come simbolo di una civiltà del confronto e della dialettica; un paesaggio su scala umana, sempre percorribile a piedi e, anzi, stratificatosi nei secoli proprio in base a un’idea di mobilità dei corpi e delle idee su scala antropomorfica; la presenza pervasiva della memoria e dell’autocoscienza, testimoniata dai nomi di strade, quartieri e piazze ispirati ai grandi personaggi della storia; la duplice discendenza da Atene e Gerusalemme (si tenga presente che per Steiner il cristianesimo è una ‘nota a piè di pagina’ della religione ebraica); e infine una specie di nera consapevolezza di appartenere a un ‘capitolo conclusivo’, al lungo tramonto di una civiltà. Cinque concetti che hanno definito l’Europa, ma che ne possono aal tempo stesso decretare l’impossibilità di competere con civiltà più giovani e agguerrite.

E il futuro? Per esso Steiner si limita ad alcune, semplici proposte, articolate in quella che definisce «una modalità dilettantesca e provvisoria». La forza d’Europa nascerà dal reperimento di un delicato e innovativo equilibrio tra la diversità e l’unità, tra le mille lingue (tutte portatrici di una peculiare cultura) e l’esigenza di comunicare. «Il genio dell’Europa è quello che William Blake avrebbe definito “la santità dei minimi particolari”», dice in una delle sue frasi fulminanti. Poi però il discorso si fa via via più confuso, e forse persino generico. L’Europa riuscirà a assumere di nuovo un ruolo guida nel mondo se saprà fare i conti con il proprio passato di odio e di violenze (ed ecco emergere lo quella straordinaria cupezza di fondo che colpisce i lettori più attenti di Steiner); se saprà fare i conti con l’odio razziale e religioso che l’intolleranza del cristianesimo ha sostenuto e fomentato; se saprà ristabilire la dignità e la centralità laica dell’homo sapiens, e allontanare le tentazioni del consumismo e del mercato. L’Europa dovrà saper richiamare i nostri cervelli in fuga per trasformarsi in un grande laboratorio umano e intellettuale. Ancora una volta una teoria appassionante quanto bisognosa di discussione e approfondimento.

Vargas Llosa, in quattro pagine di Intoduzione, esprime il suo totale disaccordo dalla visione cupa che Steiner manifesta sullo stato della nostra civiltà culturale, ma al tempo stesso si fa quasi beffe della strana utopia che da essa deriva: mai Mallarmé e Joyce hanno avuto tanti lettori, mai la cultura ha conosciuto una diffusione tanto trasversale e democratica quanto ai nostri giorni. Inutile illudersi, tuttavia: «quella cultura che George Steiner ama e conosce meglio di chiunque altro sarà sempre minoritaria”.

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