Vignette, caricature, tragedie

22 Settembre 2015 § 0 commenti § permalink

Un po’ di clamore ha fatto nei giorni scorsi nel Regno Unito una caricatura d’epoca di un grande violinista della fine dell’Ottocento, Leopold Auer, pubblicata senza adeguate spiegazioni, sul programma di una serata dei BBC Proms dedicata al Concerto per violino di Čajkovskij:

Auer

La vignetta è chiaramente di stampo antisemita, ed è di quelle che fiorirono sui giornali di mezza Europa dalla metà del Diciannovesimo secolo in poi. L’odio razziale che passa attraverso la derisione di un clichè fisico ed “estetico”: Wagner in questo fu un maestro e in un certo senso un capofila, molti altri seguiranno, in un vortice che è molto ben raccontato da un libro di Michael Haas di prossima pubblicazione in Italia (per la EDT). Haas molti lo ricorderanno come il geniale discografico che creò la lunga serie di produzioni Decca intitolata Entartete Musik, “Musica degenerata”, dedicata ai compositori cancellati dalla violenza nazista.

Probabilmente in chi ha curato il programma BBC non c’era la volontà di offendere, c’era solo ignoranza o disattenzione, e l’azienda televisiva inglese si è poi scusata, seppure con qualche ritardo.

Ma qualche mese fa, sui giornali i mezzo mondo, fecero molto discutere i commenti di sapore apertamente antisemita che apparvero persino su giornali importanti alla notizia della nomina di un maestro russo di origine ebraica alla direzione dei Berliner Philharmoniker – e si noti bene che l’altro candidato era il tedeschissimo e nazionalisticamente iperconnotato Christian Thielemann. Anche lì, grandi scuse e cancellazioni e prese di distanza: perdonate, ci siamo sbagliati, non avevamo pensato, non volevamo eccetera. Ma con una mossa abbastanza sorprendente, poco dopo la nomina di Kirill Petrenko a Berlino, i Bayreuter Festspiele, il festival fondato da Richard Wagner e tuttora condotto dai suoi pronipoti, ha nominato Thielemann “direttore musicale”, carica appositamente creata per lui; una mossa che aveva il sapore neanche troppo nascosto di una riparazione e una risposta della “nazione tedesca”.

Il fatto è che questa faccenda della caricatura, in questo periodo, rimanda anche a quella ben più grave di Charlie Hebdo e dei tragici fatti di Parigi e della sollevazione in difesa della libertà di satira e più in generale di pensiero contro l’oscurantismo religioso. Ora, le due vicende sono state messe in relazione persino da quealche colto e sensibile intellettuale (uno per tutti, Bob Shingleton, il curatore di un importante e storico blog musicale).

Ora, a me sembra chiaro che pubblicare una vignetta mediocremente antisemita di un secolo fa, del tutto decontestualizzata, senza spiegazione e senza alcun contenuto di satira politica sia una grave disattenzione da parte di chi si occupa di comunicazione culturale. Che caricatura eè una cosa e vignetta satirica è un’altra (e spesso si confondono le due cose). E che la differenza rispetto a chi utilizza anche violentemente la matita per dileggiare e pungere l’oscurantismo politico/religioso che pervade una parte crescente del pianeta sia abbastanza palese senza bisogno di ulteriori approfondimenti Però devo dire che sono comunque argomenti di una certa delicatezza, e ancora una volta mi trovo a disagio vicino a chi manifesta incrollabili e immediate certezze.

Diderot, un’accecante libertà

2 Dicembre 2013 § 2 commenti § permalink

Diderot_fragonard

Un bellissimo, breve articolo dello storico Sergio Luzzatto pubblicato nell’inserto domenicale del «Sole 24 Ore» di ieri (1° dicembre 2012, p. 41). Lo riproduco per intero perché non si trova in rete:

Diderot, chi era costui? Mentre i francesi hanno celebrato da par loro l’«année Diderot» – il terzo centenario della nascita del più fantasioso, del meno dogmatico, del più dialogico tra i philosophes – l’editoria italiana ha brillato per il suo disinteresse. Nelle librerie si fatica a trovare anche soltanto un titolo recente dedicato a Diderot. Non la traduzione della mirabile raccolta di saggi di Jean Starobinski, Diderot, un diable de ramage. Né la traduzione della felicissima biografia-non-biografica (per così dire) firmata da Michel Delon, Diderot cul par-dessus tête. Dove non foss’altro che i due titoli, quanto meno curiosi, avrebbero meritato di sollecitare l’attenzione degli editori, tanto la figura dì Diderot, quest’uomo nato nel 1713, interpella il nostro presente per una straordinaria molteplicità di risvolti, dalle pratiche del corpo e dell’identità sessuale alle teorie dell’arte e del linguaggio, fino ai cinguettii di Twitter… In generale, l’«année Diderot» si presenta come un’ennesima occasione perduta dalla cultura italiana per riflettere sulla contemporaneità dell’illuminismo: su quel passato dei Lumi che non è solo un antecedente, è anche un parallelo dell’oggi. Ma chi lo spiegherà, tanto per cominciare, ai ragazzi che studiano filosofia nelle nostre scuole superiori? Quale insegnante si sottrarrà al ricatto storicistico del «manuale» e al ricatto burocratico del «Programma» scegliendo –semplicemente – di far leggere Diderot? Chi mostrerà ai ragazzi quanto si impari intorno ai rapporti di genere tuffandosi, ad apertura di pagina, nelle lettere scritte dal «filosofo» alla donna della sua vita, Sophie Volland? Quanto si impari delle sensazioni, le proprie e le altrui, attraverso la Lettera sui ciechi ad uso di coloro che vedono? E magari anche, perché no, quanto si impari sul sesso spigolando tra I gioielli indiscreti?

È tutto vero. Il disinteresse della stampa e dell’editoria italiana nei confronti di questo straordinario uomo e intellettuale è stato letteralmente sorprendente – disinteresse che in ogni caso riflette presumibilmente quello, ben più triste e preoccupante, della ricerca e dell’accademia nazionali. Cos’è che ancora ci impedisce di conoscere e amare quest’uomo libero, intelligente e acuto quant’altri mai? Questo pensatore imprevedibile, il più letterariamente elegante dei philosophes, la testa meno classificabile, il corpo e il cuore più instancabili dell’Illuminismo? Che sia proprio la sua stupefacente capacità di guardare e ripensare le cose “da zero”, senza pregiudizi o condizionamenti? Nella religione, nella morale, nell’arte, nella storia, nel costume, nel sesso. Pressoché ovunque.

Ma se è vero che il panorama editoriale italiano è desolantemente povero di buoni testi critici su questo faro dell’intelligenza umana, offre comunque alcuni dei suoi capolavori in edizioni anche ottime. Prima di tutto quello che a me sembra il testo più enigmatico, poetico e appassionante della sua intera opera, la “satira” amata e tradotta da Goethe, un libro da cui mi verrebbe da dire che non si impara niente, perché la libertà non insegna ma contagia, e cioè Il nipote di Rameau. Einaudi ne aveva in catalogo un’eccellente traduzione di Augusto Frassineti (scrittore finissimo e di grande attualità, anch’esso dimenticato), ma oggi la pubblica Quodlibet; ottima edizione, fedele e accurata, è pure quella della BUR. E sempre nella collana economica della Rizzoli si possono leggere altri testi importanti e appassionanti, da Jacques il fatalista ai Gioielli indiscreti. Ma se dovessi consigliare un amico, dopo Il nipote di Rameau – che poi è un dialogo fra un Moi e un Loi in cui viene messo in scena uno dei personaggi più divertenti e teatrali dell’intera letteratura francese – consiglierei la lettura del Paradosso sull’attore, del quale è in commercio un’ottima traduzione pubblicata da SE. Molto interessanti, anche se su un altro piano, le sue voci per l’Enciclopedie – l’opera di tutta la sua vita, la meravigliosa ossessione a cui sacrificò gran parte delle sue forze: alcune di queste voci sono comprese nel bel volume ripubblicato da Laterza nel 2003 (Enciclopedia o dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri ordinato da Diderot e D’Alembert, a cura di Paolo Casini).

Certo, a chi se la sente di affrontare il francese elegante e pulito di questo prolificissimo autore, consiglierei l’acquisto del recente volume della Pléiade che comprende le opere cosiddette “letterarie” – anche se i confini fra pamphlet, satira, libello, articolo, racconto e via dicendo sono molto difficili da tracciare nell’opera di Diderot, dove tutto sembra nascere dall’impulso della vis polemica o dal gusto della più franca e divertente conversazione: Contes et romans, pubblicato nel 2004 sotto la direzione di Michel Delon. Nella stessa, splendida collana di Gallimard, si trova anche uno dei classici Album a lui dedicato e il volume di Œuvres philosophiques (2003).

Rimane senza risposta la domanda di fondo: perché si parla così poco di Diderot? Ho come la sensazione che la risposta, nel non vastissimo dizionario della cultura italiana contemporanea, sia da cercare proprio alla voce libertà. Una scellerata, spregiudicata, per noi faticosa e talvolta quasi accecante libertà.

Il ritratto in alto è quello, famosissimo, di Louis-Michel van Loo, dipinto nel 1767 e donato nel 1911 dalla famiglia Vandeul (i discendenti di Diderot) allo Stato francese; oggi è visibile al Louvre (ala Sully). A Diderot il ritratto del suo amico van Loo, esposto per la prima volta al Salon del 1767, non era piaciuto affatto, e ne aveva preso spunto per una delle sue bellissime pagine sulla pittura, forse la più famosa. Accusa il pittore di avere cercato in lui l’atteggiamento e la compostezza a detrimento del vero, del carattere. In questa pagina di wikipedia dedicata al cosiddetto “ritratto letterario” si può leggere (in francese) un riassunto della vicenda. Non gli piaceva la posizione da ministro, la boccuccia atteggiata, l’aria soddisfatta e seduttiva. Lodava invece un altro ritratto di un pittore minore oggi perduto (Jean-Baptist Garand). Avvertiva gli eredi a cui il ritratto di van Loo sarebbe arrivato: «Figli miei, vi prevengo, quello non sono io». E a quanti avessero visto il suo vero viso nel ritratto di Garand, lui immaginava che sarebbe venuto in mente il giusto commento estetico sul suo viso (e sulla sua personalità). Un commento in italiano, perché la commedia della sua vita è stata Commedia dell’Arte: «Ecco il vero Pulcinella!». Per dire il personaggio. Confrontare con gli intellettuali di oggi, se ci si vuole fare del male.

La leggerezza del pattinatore

26 Novembre 2013 § 0 commenti § permalink

larmessin

Sur un mince cristal, l’hyver conduit vos pas;
Le précipice est sous la glace.
Telle est de vos plaisirs la légere surface:
Glissez, Mortels, n’appuiez pas.

Su un fragile cristallo, l’inverno conduce i vostri passi;
Il precipizio è sotto il ghiaccio.
Tal’è la sottile superficie dei vostri piaceri:
Scivolate, Mortali, non affondate il piede.

Ho sempre trovato splendida questa quartina scritta da Pierre-Charles Roy, un poeta francese del Settecento, nemico di Voltaire e di Rameau, librettista di Destouches, satirista violento e livoroso, accademico mancato, autore di una messe di versi, poemi, epigrammi e tragedie, ma ricordato quasi esclusivamente per quattro semplici e a loro modo “letteralmente” superficiali versi.

Comparvero, a quanto pare, per la prima volta in calce a un’acquaforte intitolata L’Hyver, l’inverno, incisa nel 1745 da Nicolas de Larmessin III, da un quadro di Lancret, parte a sua volta di una serie dedicata alle stagioni. Il dipinto raffigurava un laghetto e una fontana ghiacciati. Mentre la seconda è una specie di memento mori, con la sua divinità fluviale raggelata e circondata di stalattiti d’acqua cristallizzata, sul laghetto diverse figure sono intente a pattinare in una scena leggera e vitale, alcune in piedi, altre sdraiate dopo una caduta, una mentre viene aiutata a infilare un pattino con un gesto erotico e galante. Larmessin nell’incisione stringe su tre figure, le due intente alla vestizione e un elegante pattinatore alla Watteau.

Mi sono spesso domandato se Calvino conoscesse questi versi quando scrisse la sua “lezione americana” sulla leggerezza. Non sapevo tuttavia che la sua eco fragile e ghiacciata abbia risuonato anche nei grandi spazi silenziosi dello Zibaldone. E invece, sotto la data del 7 novembre 1820, si legge un meraviglioso appunto che riporto qui nella sua interezza.

Quel detto scherzevole di un francese Glissez, mortels, n’appuyez pas, a me pare che contenga tutta la sapienza umana, tutta la sostanza e il frutto e il risultato della piú sublime e profonda e sottile e matura filosofia. Ma questo insegnamento ci era già stato dato dalla natura, e non al nostro intelletto né alla ragione, ma all’istinto ingenito ed intimo, e tutti noi l’avevamo messo in pratica dafanciulli. Che cosa adunque abbiamo imparato con tanti studi, tante fatiche, esperienza, sudori, dolori? e la filosofia che cosa ci ha insegnato? Quello che da fanciulli ci era connaturale e che poi avevamo dimenticato e perduto a forza di sapienza; quello che i nostri incólti e selvaggi bisavoli sapevano ed eseguivano senza sognarsi d’esser filosofi e senza stenti né fatiche né ricerche né osservazioni né profondità ec. Sicché la natura ci aveva già fatto saggi quanto qualunque massimo saggio del nostro o di qualsivoglia tempo, anzi tanto piú, quanto il saggio opera per massima, che è cosa quasi fuori di se: noi operavamo per istinto e disposizione ch’era dentro di noi ed immedesimata colla nostra natura, e però piú certamente e immancabilmente e continuamente efficace. Cosí l’apice del sapere umano e della filosofia consiste a conoscere la di lei propria inutilità se l’uomo fosse ancora qual era da principio, consiste a correggere i danni ch’essa medesima ha fatti, a rimetter l’uomo in quella condizione in cui sarebbe sempre stato s’ella non fosse mai nata. E perciò solo è utile la sommità della filosofia, perché ci libera e disinganna dalla filosofia.

Tutta la sapienza umana, dice Leopardi, e forse non voleva esagerare. Pensare per liberarci dal peso del pensiero: quanto è vero. Glissons, allora. Non affondiamo, Mortali.

Ciò che la Volpe disse al Principe

12 Novembre 2012 § 0 commenti § permalink

Addio”, disse la volpe. “Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.
“L’essenziale è invisibile agli occhi”, ripeté il Piccolo Principe, per ricordarselo.
“È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”.
“È il tempo che ho perduto per la mia rosa…” sussurrò il Piccolo Principe per ricordarselo.
“Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa…”
“Io sono responsabile della mia rosa…” ripetè il Piccolo Principe per ricordarselo.

Antoine de Saint-Exupéry

Cose trovate – Io che cosa sono?

3 Maggio 2012 § 0 commenti § permalink

Postulare che l’uomo (ogni uomo) abbia come vocazione essenziale la conoscenza, la conoscenza di ciò che è, la conoscenza di chi è, non significa assegnargli un ideale irraggiungibile, ignorare le condizioni materiali e affettive che possono garantirgli il benessere e talvolta la felicità: significa ricordare la parte di umanità generica di cui siamo tutti portatori, e l’esigenza etica e critica che ne consegue. Il fatto di includersi nella conoscenza di sé significa progredire, iniziare un percorso e capire che questo movimento è il mezzo e, allo stesso tempo, l’oggetto della conoscenza: io che cosa sono se non questa fragile e tenace volontà di capire? La coscienza comune di questa tensione profonda definisce il più alto grado di sociabilità, il rapporto più intenso con gli altri, l’incontro.

Marc Augé, Futuro, Bollati Boringhieri, Torino 2012, p. 125.

Cose trovate — Un violino con le ali

30 Marzo 2012 § 0 commenti § permalink

Alban Berg — Ludwig van Beethoven, Concerti per violino e orchestra, Isabelle Faust, Claudio Abbado, Orchestra Mozart. Harmonia Mundi

Il più bello dei concerti di Beethoven e il concerto più attonito e siderale del Novecento. Sullo stesso disco. Come non esserne incuriositi? In genere un artista che voglia dire la sua sul concerto per violino di Beethoven (o su quello di Berg) lo incide con tutte le cure che può, e poi lo circonda con qualche brano più o meno originale, ma scelto per non rubare la scena al pezzo forte. Per accompagnare quello di Beethoven una volta andavano fortissimo le due Romanze, e devo dire onestamente che non mi è mai sembrata una grande idea; oggi si cercano accostamenti meno tono-su-tono, perché c’è tono e tono. Ma Berg e Beethoven? Non che non abbiano nulla in comune, ma mostrare il filo che li lega richiede un gran lavoro di pensiero e di stile, e poi con un programma così per più di un’ora non si tocca mai terra. Insomma, la cosa rivela una certa ambizione.

Confesso di non essere riuscito a seguire il percorso suggerito, e ho cominciato ad ascoltare il secondo pezzo: Beethoven, subito; “qui si parrà la tua nobilitate”. Isabelle Faust non è certo David Oistrach. Il suo ingresso dopo il meraviglioso e cullante tema, con quegli arpeggi esili, intonatissimi ed eleganti, è un ingresso a piedi scalzi. Com’è lontana l’ampiezza, la risonanza con cui i violinisti della generazione di Oistrach si facevano largo tra l’orchestra: la loro era un’affermazione di spessore, di profondità. Quella che mette in scena Isabelle Faust non è una battaglia, lei non si prende sulle spalle le tragedie del mondo. Ma appena ci si abitua a questa presenza più delicata, dialogante, femminile verrebbe da dire, ciò che colpisce è il fraseggio. Un’eleganza, una cura per la linea melodica che ti conquista, ti spinge a cercare quel suono che a volte rasenta l’inudibile. E qui Abbado l’aiuta meravigliosamente: io dei pianissimo così non ricordo di averli mai sentiti nel conerto di Beethoven. E non solo nel Larghetto: anche nel primo movimento. E quella cadenza bella e un po’ sconcertante, in dialogo con i timpani? E gli arpeggi sulle fermate? In nessun momento pensi di essere di fronte alla più bella interpretazione del concerto, ma neppure per un momento riesci a distrarti da questo bellissimo suono dell’orchestra e del solista, dal tutt’uno che sembra troppo intelligente per essere stato davvero pensato. Solo il Rondò rivela un po’ la trama di questa stoffa meravigliosa: Abbado è bravissimo nel mantenere il suono leggero, compatto e fresco nei movimenti veloci, ma sembra non volersi mai abbandonare all’estasi dionisiaca della danza, e il Rondò di questo concerto a volte mi sembra averne bisogno. Tuttavia, in questo rifiuto dell’abbandono sono perfettamente in linea, il direttore e la solista. L’effetto non è quello della freddezza, quanto quello della stilizzazione. Il meraviglioso dialogo col fagotto, per dire, scorre via senza stupore, ma è toccante lo stesso: è tutto così bello che non c’è bisogno di fermarsi, sembra dire.

Ma dopo un’emozione estetica tanto aerea, c’è ancora spazio per il concerto di Berg, anche lui così lontano dalla creta dell’esistenza, così concentrato sul sublime e l’ultraterreno? Forse era meglio seguire la strada indicata dal disco. E invece no. Un altro ingresso in pianissimo, composto e sereno nella sua fragilità, e di nuovo non si smette di fissare quella linea che si snoda nella complicata geografia che l’orchestra gli disegna intorno. È la memoria di un angelo, proprio come dice il titolo. Il suono dell’insieme a volte è così bello e compatto che si lascia scomparire il violino come si farebbe guardando un treno che entra in una galleria, sicuri di ritrovarlo puntuale dall’altro lato, esattamente nel momento che pensavamo. Quando il corale ci dice Es ist genug, è abbastanza, sono pronto, proprio nel momento in cui pensi che eleganza, però non è commovente, scopri che ti ha toccato di nuovo in profondità, perché l’eleganza sa colpirti come un pugno, solo che non lo senti arrivare.

Io non so dire se questa o quella è la migliore interpretazione di questo o quello, e non sono portato a fare classifiche che ambiscano a varcare la soglia di casa; però quando qualcosa non ti lascia come ti ha trovato, quella cosa sta facendo il lavoro che una volta era affidato alla bellezza.

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