29 Settembre 2015 § § permalink
Sta facendo molto parlare, sui siti internet del mondo musicale, la notizia del rifiuto, da parte del grande pianista russo Grigory Sokolov, del Cremona Music Award 2015. In una lettera scritta in russo e in italiano, Sokolov motiva il gesto, in qualche modo clamoroso, affermando: “secondo le mie idee di elementare decenza è una vergogna comparire sulla lista dei premiati con Lebrecht”. Chi è Lebrecht?
Norman Lebrecht è un musicologo e critico inglese, famoso per il suo stile giornalistico tendente allo scandalistico e molto diretto nei giudizi. Ha lavorato per diverse testate, condotto show televisivi alla BBC, scritto numerosi libri (e persino romanzi); aggiorna regolarmente un sito internet molto frequentato dai professionisti della musica e del giornalismo per avere informazioni sugli ultimi casi e scandali: chi ha protestato chi, chi è stato fischiato dove e via dicendo. In italiano fino a qualche anno fa si poteva ancora trovare in qualche libreria o bancarella il suo Il mito del maestro (Longanesi 1992), un libro inteso a decostruire l’idea di intoccabilità e sacralità del direttore d’orchestra, nel quale si raccontavano molte cose non onorevoli degli dei del pantheon musicale classico.
Del carattere difficile di Sokolov si è spesso sentito parlare. Si sa, per esempio, che da anni non suona nei Paesi nei quali siano macchinose le procedure per ottenere il visto – prima di tutto Regno Unito e Stati Uniti. E molte altre manie – ma niente di più di quanto è concesso ad altri pianisti dello stesso livello: si tenga presente che stiamo parlando di quello che è spesso additato come il miglior pianista vivente. Messa da parte quel po’ di shadenfreude che queste cose provocano sempre nei colleghi magari meno fortunati di Lebrecht, quello che tutti si stanno chiedendo ora è: che cosa può mai aver fatto Norman Lebrecht a Grigory Sokolov per rendersi degno di tanto pubblico disprezzo?
Dare una risposta a questa domanda in realtà non è così difficile: basta collegarsi al sito del suo agente per leggere una lettera (nella traduzione del grande Bruno Monsaigeon) in cui Sokolov ricorda l’amatissima moglie, scomparsa nel 2014, e lamenta alcune “deliranti invenzioni” che personaggi capaci di “ballare sulla sua tomba” avrebbero diffuso su di lei. Norman Lebrecht nel gennaio del 2014 aveva messo on-line la notizia del lutto personale di Sokolov in un articolo di apparente condoglianza (“Sad News” riportava il titolo); ma poche righe dopo la notizia, con sprezzo del buon gusto e della privacy, commentava che la donna appena scomparsa era anche la vedova del cugino del pianista. Doveva esserne seguita una furiosa polemica, perché in ciò che è possibile oggi vedere di quell’articolo è aggiunto un aggiornamento in cui il livoroso critico ricostruisce addirittura l’intero albero genealogico di Sokolov, basandosi su informazioni fornitegli da un sito, collegandosi al quale oggi si riesce solo a leggere un ulteriore insulto a Lebrecht (“scandalista da quattro soldi”, vi è definito).
La vicenda in sé sarebbe una triste questione di scarsa etica professionale, cattivo gusto e violazione del diritto alla privacy per gli artisti – e in special modo per i loro sentimenti più profondi e personali. In realtà vale la pena di osservare questa storia per un altro motivo.
Quello che Norman Lebrecht fa da anni è esattamente ciò a cui sempre più tendono i giornali italiani di oggi quando parlano di musica classica. Il suo modo di scrivere, fatto di buona cultura (Lebrecht non è certo un cretino), informazione aggiornata, ricerca dell’effetto e gusto per lo scandalo è ciò a cui tendono le penne oggi più apprezzate dai direttori dei giornali, quelle con le quali vorrebbero rimpiazzare i noiosi e paludati critici musicali. È parte di quella trasformazione del mondo musicale classico in palcoscenico glamour tanto ricercata da discografici, agenti, organizzatori e uffici stampa nella vana speranza di ingrossare le fila del senescente pubblico classico. È un’operazione che paga (moltissimo) su pochi personaggi, da Lang Lang in giù, ma avalla un modo di rapportarsi all’arte che può avere effetti disastrosi sul resto della scena. E che esercita sugli artisti nati e cresciuti in un mondo rarefatto e spaventosamente severo com’è stato ed è tuttora quello dei Michelangeli, dei Zimerman, dei Sokolov appunto, una violenza inimmaginabile. E a mio parere mostruosamente ingiusta.
7 Agosto 2011 § § permalink
Dopo il pasticciaccio brutto della cittadinanza onoraria capitolina, offerta dalla giunta di Alemanno a Riccardo Muti e poi sfumata nel vociare di beghe borgatare, ecco che la mejo destra tenta di riparare alzando la posta, e chiede la nomina del Maestro a senatore a vita. Ora si espone anche Carlo Rossella, il nostro Tom Wolfe formato Olgettina, con un raffinato pezzo di critica musicale nella sua rubrichina “Alta società” (sul Foglio), ormai da anni uno dei più efficaci spazi di approfondimento dell’imbecillità umana:
Straordinario Macbeth di Muti al Festival di Salisburgo. Il maestro sorride quando si parla della sua eventuale nomina a senatore a vita. Ma l’Italia glielo deve, nessuno al mondo dirige Verdi come lui.
L’idea non è né nuova né di per sé sbagliata. Il problema è un altro, e ancora una volta ricorda la palude italiana: con uno sponsor così, chi ha il coraggio di tirarsi indietro? Napolitano sarà sicuramente felice del consiglio.
La splendida foto di Muti nella “foresta di Birnamo” è di Kerstin Joensson (AP Photo/dapd)
17 Marzo 2011 § § permalink
Belle le tante feste per l’Unità, bello sentir ricordare i personaggi eroici che hanno lottato per farla nascere. Divertente prima che preoccupante il ritorno del kitsch patriottico. Peccato però pensare di combattere il provincialismo con il regionalismo, il regionalismo col nazionalismo e così via. Anche perché molti ricorderanno che proprio dopo una disastrosa ubriacatura di falso patriottismo era nata la splendida utopia di Ventotene, l’idea di una unica e accogliente patria europea. La parola Europa è la grande assente dalle riflessioni sul presente e il futuro nazionale. Sembra quasi che nessuno ci creda più. Eppure, solo pochi anni fa…
Allora auguri all’Italia, magari nella speranza che dopo tutto questo sventolìo a qualcuno rimanga la voglia di fare un po’ di pulizia. Senza mai dimenticare le parole sante del grande Brassens su “les imbéciles heureux qui sont nés quelque part”. Da meditare ogni giorno di più.
28 Febbraio 2011 § § permalink
Riti di passaggio nel mondo dei grandi direttori. A 35 anni Daniel Harding debutta con la New York Philharmonic, e puntuale il New York Times gli dedica un’intervista che, sorprendentemente, prende una piega vagamente malinconica. Il titolo: “Un bambino prodigio cresce e diventa un semplice direttore giovane”.
Volendola riassumere con parole nostre, la sua storia è un po’ questa: un giovanissimo musicista viene venduto per dieci anni come fanciullo prodigio, si ritrova a dirigere le migliori orchestre del mondo intorno ai vent’anni d’età, a ventuno debutta con i Berliner, poi ottiene un contratto con una major discografica, poi inaugura la Scala, poi, poi… Poi si ritrova a 35 anni, con un calendario ancora gremito di impegni, con opportunità che pochissimi direttori suoi coetanei potrebbero avere, ma con un personaggio da reinventare, e forse con una vita un po’ a pezzi. A 35 anni sei un giovane direttore, non sei più ‘il folletto del podio’, l’‘esplosione di energia giovanile’ e le altre terribili castronerie che per dieci anni hanno affollato le poche righe che i giornali concedono ai senescenti critici musicali. Senescenti anagraficamente o più spesso psicologicamente.
Dove abita Daniel? Da nessuna parte. Le sue cose sono in un magazzino, dopo la separazione dalla moglie. Quale grande orchestra dirige? Nessuna in maniera stabile: quelle stesse istituzioni che lo invitavano per divertire un pubblico vecchio e assetato di gioventù come il conte Dracula, lo chiamano ancora perché è un buon nome, perché ancora c’è un po’ di scia dell’effetto ‘folletto’. Ma a parte qualche critico di qualche inserto culturale di qualche giornale confindustriale italiano, il tempo dei peana è passato, e ora viene quello della costruzione di un prestigio, di una credibilità da musicista maturo. Un’impresa tutt’altro che facile, in queste condizioni. Lui nel frattempo si lega a istituzioni con cui può crescere al riparo: Trondheim, in Norvegia; Norrköping, in Svezia; Brema, in Germania.
E adesso due concerti con la New York Philharmonic, per due sinfonie di Mahler. Come dice lui stesso, non è che uno va a New York e con un paio di prove spiega all’Orchestra che fu di Bernstein come si suona la Quarta di Mahler. La sfida è quella di non fare stupidaggini, di guidarli e lasciarsi guidare; quella di creare un rapporto di fiducia e di cercare di crescere ancora, magari anche imparando da loro.
Ma il pubblico, è questo che vuole da Harding? » Read the rest of this entry «
3 Marzo 2010 § § permalink
Tre giornate per ricordare Sergio Sablich, una delle voci più appassionate ed autorevoli della cultura italiana degli ultimi decenni, musicologo, critico musicale e docente, che all’attività di studioso ha alternato quella di organizzatore musicale come direttore artistico dell’Orchestra Sinfonica Nazionale e dell’Orchestra della Toscana, sovrintendente dell’Opera di Roma e consulente artistico del Teatro alla Scala. Un progetto del Museo Nazionale del Cinema, del DAMS di Torino e dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai.
A cinque anni dalla prematura scomparsa di Sergio Sablich, musicologo e importante collezionista bergmaniano, avvenuta il 7 marzo 2005 all’età di 54 anni in seguito ad un ictus cerebrale, Torino rende omaggio a questo intellettuale colto, curioso e raffinato dal 3 al 5 marzo con un articolato omaggio che comprende un convegno del DAMS sul grande regista svedese Ingmar Bergman, un concerto dell’Orchestra Sinfonica della Rai e una proiezione al Cinema Massimo.
Comincia così il comunicato stampa che annuncia le tre giornate di studio (e un po’ anche di festa culturale) che Torino dedica a Sergio Sablich. Per il programma completo rimando al sito che la famiglia e gli amici gli hanno dedicato e che raccoglie una quantità straordinaria di cose interessanti da leggere.
E così sono passati quasi cinque anni da quando Sergio Sablich ci ha lasciati. E quanti ne sono passati da quando ha lasciato Torino? Circa dodici. Da quel 1998 in cui decise di lasciare la direzione artistica dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, e di affrontare l’azzardo della sovrintendenza dell’Opera di Roma.
Dodici anni. Volati? Direi di no. Passati piuttosto con il peso di un trattore sulla cultura italiana. Credo che in molti, e non solo a Torino, si ricorderanno delle sue stagioni Rai: senza abbandonarsi troppo alla retorica, si potrebbe dire che erano attraversate da uno slancio emotivo e intellettuale probabilmente irripetibile.
Quando decise di accettare Roma, gran parte degli amici torinesi storsero la bocca. Perché lasciare la solidità di una casa costruita con fatica, mattone su mattone, per ricominciare tutto in un posto franoso e fangoso, dove notoriamente gli amici sono della ventura e i nemici perfidi e insidiosi? I torinesi inoltre (lo so per appartenenza alla categoria), erano convinti che la loro città, la loro bella orchestra, le tante occasioni che quel lavoro offriva non potessero che corrispondere perfettamente alla sua indole, saziare ogni sua brama. Com’era arrischiata per loro quella partenza: foriera di infelicità.
E Roma andò male; poi anche la Scala non andò bene: Milano si mostrò infida quanto Roma. Ma in realtà era l’Italia della cultura a essere diventata sempre più infida: era un mondo in cui stava finendo un’epoca di certezze politiche, e che stava ridisegnando la propria geografia. Sablich era una vera eccezione culturale: non capivi mai bene con chi stesse, se giudicavi con una divisa addosso. Avrebbe dovuto essere la persona più adatta ad avvantaggiarsi di quel momento: probabilmente proprio per questo fu sentito come una minaccia.
Ma allora avevano ragione i torinesi? Per dirla con Peter Grimes, “Then the Borough’s right again?”: il Borgo ha di nuovo ragione? Ora che Torino ricorda Sablich, e sono passati cinque e poi dodici anni, mi piacerebbe che Torino riflettesse su cosa può ancora imparare dalla storia di Sablich. Certo, c’è il convegno dedicato a Bergman, il concerto dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, la proiezione cinematografica. Ma non basta.
Il fatto è che costruire qualcosa, e non solo nel mondo della cultura e delle arti, richiede, ma vorrei dire pretende, un solido amore per l’avventura intellettuale. Il cambiamento, anche arrischiato, la ricerca, il disagio per ciò che si è assestato su una routine, anche fosse una routine virtuosa. E qui non alludo a quella finta curiosità che fa mettere insieme un pezzetto di disordine nel sacro equilibrio: il programmino postmoderno, la ricercuzza pop, il trombonista jazz nel concerto mozartiano. Questi sono i cacciatori da Safari: un’organizzazione poderosa e costosissima li porta in mezzo a una finta jungla, loro sparano un colpo e tornano a casa col trofeo per il salotto.
Quella di cui parlo è la vera inquietudine intellettuale. Quella che costringe a esplorare se non terre nuove, profondità nuove. Quella che esaspera gli amici, i collaboratori, le persone care; che ti porta a fare un pezzo del viaggio in compagnia di gente poco raccomandabile, e magari a commettere degli errori; quella, però, senza la quale non ci può essere alcuna vera crescita umana e intellettuale. Rispettare questa irrequietezza, coltivarne i frutti, imparare da essa a non pensare che ciò che si ha sia abbastanza per tutti: è su questo, oltre che sulle tante belle pagine di vita e di spettacolo, che mi piacerebbe che Torino – tutte le Torino del mondo – riflettessero ricordando Sergio Sablich.
9 Febbraio 2010 § § permalink
Antonio Moresco è uno degli scrittori più interessanti del panorama italiano degli ultimi decenni. La sua non è una scrittura per amanti delle belle lettere, della frase flautata, della trama suadente. È letteratura come schiaffo che risveglia e disturba, che fissa gli occhi dove spesso evitiamo di guardare; non, o almeno non solo nel senso della denuncia, ma della rimozione inconscia. Quel tipo di letteratura che non si legge per sognare ma che della visionarietà fa un mezzo per risvegliare l’attenzione sul nostro modo di essere al mondo.
Ovvio che non si tratti di una letteratura dalla vita editoriale facile, e per chi volesse farsene un’idea il suo recente Lettere a nessuno, pubblicato da Einaudi nel 2008, può essere una lettura illuminante – a tratti esilarante, più spesso drammatica e sconfortante. Ma il suo libro maggiore, fortissimo e per certi versi sconvolgente, è Canti del caos (parte I, II e III), pubblicato da Mondadori l’anno successivo.
È in questo quadro che vorrei segnalare un bellissimo racconto – o forse più esattamente pièce teatrale – intitolato Duetto, compreso nel volume Merda e luce (Effigie, 2007). Mette in scena un dialogo immaginario tra Maria Callas e la tenia, il verme solitario che, secondo una vecchia leggenda del mondo operistico, il soprano avrebbe volontariamente ingerito allo scopo di perdere peso.
Crescendo nelle sue viscere attraversate dallo sconvolgente fenomeno del canto – che proprio dalle viscere nasce per diffondersi nella siderale luce dello spettacolo e dell’arte – la tenia lentamente impara a cantare, tanto da diventare un contrappunto interno alla voce della grande artista che la ospita, e uno degli elementi che la rendono inimitabile e misteriosa per tutto il suo pubblico.
Duetto è una lettura che, lo ripeto, potrebbe anche disturbare, ma che sicuramente parla di qualcosa di molto profondo e importante per chiunque ami la musica e più in generale l’arte e la letteratura. È una lettura che porta alla mente la domanda fondamentale su dove nasce la voce di un artista. E lo fa in un modo che solo un grande scrittore potrebbe escogitare.
Il racconto può essere scaricato in formato pdf dal sito della rivista Il primo amore.
«Non ne potevo più di tutta quella massa di lardo che era cresciuta col tempo attorno alla mia voce. Che la mia voce dovesse uscire da quella botte di grasso in forma di donna. Volevo sbarazzarmi di quel fardello perché rimanesse solo la voce, la mia voce. Si sentisse e si vedesse solo quella mentre spalancavo sui palcoscenici dei più importanti teatri del mondo la mia grande ciabatta greca incendiata dal rossetto sotto gli occhi sfavillanti e bistrati, quasi fuori dalla testa nello sforzo e nell’ebbrezza del canto. Voi là al buio, nelle grandi sale di velluto e d’oro, come altre creature ammaliate e impietrite di fronte al canto inventato dell’usignolo su un ramo, negli anfratti della terra, dell’aria. Oh, io capisco, io lo so cosa prova il corpicino ricoperto di piume dell’usignolo che si espande attraverso il canto! Cosa può provare l’allodola in un campo di grano mentre lancia il suo richiamo sessuale!»
17 Dicembre 2009 § § permalink
Un misterioso fenomeno preoccupa i biologi di tutto il mondo. Secondo uno studio recentemente pubblicato da un fisico acustico del Colorado, la voce delle Balenottere azzurre, già famose per il loro profondissimo e ipnotico canto (inserito in molte registrazioni di musica New Age da massaggio), si sta progressivamente abbassando di frequenza.
Il canto delle balene, infatti, registrato per la prima volta negli anni cinquanta grazie a speciali microfoni subacquei costruiti per usi militari, è sempre stato considerato una manifestazione musicale tra le più affascinanti ed enigmatiche del mondo naturale. Mark McDonald, ricercatore di acustica oceanica, ci avverte ora con una certa ansia che negli ultimi quarant’anni questo canto è diventato più grave di circa il trenta per cento. “È un fenomeno planetario”, dice, e spera che diffondendo la notizia su internet si possa trovare un qualche scienziato in grado di spiegare il fenomeno.
Alcuni osservatori della comunità scientifica sospettano tuttavia che dietro l’identità del fisico oceanico si possa in realtà nascondere il famoso tenore messicano Placido Domingo, fra i primi a denunciare il fenomeno. Si attendono smentite e forse querele.
9 Dicembre 2009 § § permalink
Fra le molte cose di cui avrei voluto scrivere in queste settimane di lontananza da Fierrabras, almeno le impressioni provenienti dall’ascolto di un disco vorrei non tralasciarle. Si tratta dell’incisione dei 24 capricci per violino solo di Niccolò Paganini fatta da Thomas Zehetmair per la ECM.
Di incisioni dei Capricci ne ho sentite tante, ma devo dire che questa è davvero particolare. Zehetmair possiede una tecnica che lascia senza fiato, ma non è questo ciò che più colpisce. Il suo è un Paganini violento, secco, più fantastico che elegante; i suoni sembrano tutti inclinare verso lo strappato, verso gesti di forza al tallone più che delicate volate alla punta dell’arco. Il suono è quasi sempre aspro di colofonia – la pece che tiene aderenti i crini dell’archetto alla corda – e poco propenso a perdersi nel cantabile. Per intendersi, all’opposto della diabolica eleganza di Salvatore Accardo o di Mintz.
Dove la cosa si fa più evidente è nei primi 12 Capricci, quelli a mio avviso più sperimentali e artisticamente ricercati; all’ascolto ho sempre avuto il dubbio che la seconda parte della raccolta, fatta esclusione per il Tema con variazioni del Capriccio 24, non appartenga alla stessa linea creativa – la datazione della raccolta, pubblicata nel 1820, è attribuita a un lasso di tempo che va dal 1805 agl’anni 1817–18 – ma non ho mai trovato conferme al sospetto. Non sono né meno belli né più facili, ma la forma è diversa, più regolare nella contrapposizione cantabile-presto e da capo del cantabile. Così come nella precedente incisione (Teldec), Zehetmair fiorisce e varia tutti i da capo, dimostrando una grande capacità creativa e mimetica, nell’equilibrio tra rispetto del testo e invenzione. Ma le modifiche e le fioriture sono presenti anche nei primi 12, qua e là; mai una battuta di più o di meno, ma più di una licenza ben nascosta – le aggiunte per esempio dei suoni armonici, creativamente presenti nei concerti ma non inseriti dall’autore nei Capricci. » Read the rest of this entry «
5 Ottobre 2009 § § permalink
Quanti anni sono passati da quando il mercato discografico è entrato nella sua crisi senza fine? Da quanto tempo si assiste all’invecchiamento del pubblico dei concerti classici, al prosciugarsi della spinta estetica e innovativa dello spettacolo dal vivo? Quante spiegazioni sono state cercate, quante vie d’uscita sono state indagate? Nel frattempo, sulla già fragile economia della musica si sono abbattuti il crollo del sistema finanziario, la recessione, i tagli, la disoccupazione. Si è molto parlato della fine di un sistema, così come pareva giunto al capolinea un costume finanziario che aveva portato l’economia mondiale al collasso. E invece, ai primi segni di ripresa, ecco che a Wall Street si vedono rispuntare i superbonus per i manager, i derivati, i titoli spazzatura e via dicendo. E nel mondo della musica? Tanti studi, tanti convegni, tante parole. E nel frattempo, un po’ come a Wall Street, cosa stavano facendo gli intelligentissimi supermanager del big business musicale?
È molto semplice. Stavano cercando un nuovo Bernstein. Quello hanno imparato a fare, quello ancora sanno fare, e quello faranno, perché nel frattempo non hanno maturato nient’altro. In fondo è un po’ come vendere titoli spazzatura: li si occulta in un pacchetto complessivamente attraente sperando che nessuno abbia voglia di guardare troppo a fondo, e li si spaccia per meraviglie. A un certo punto però il sistema cede, e tutti si chiedono il perché. Abbiamo distrutto un mercato drogandolo di tre tenori, di incredibili porcherie crossover per un pubblico umiliato da grande fratello? Abbiamo scavato ogni recesso della volgarità e del kitsch, utilizzato ogni possibile appiglio per rendere appetibile un genere musicale a chi non lo vuole, tirando calci a chi finora ci aveva mantenuto? E ora che, dopo il prevedibile tracollo, qualcosa sembra tornare a muoversi che cosa facciamo? Ricominciamo da capo, naturalmente.
È quello che potrebbe venire in mente a chi osservasse l’incredibile onda mediatica che si diffonde dalla California, in questi giorni, per l’incoronazione di Dudamel a direttore della Los Angeles Philharmonic. Senza un nuovo eroe su cui investire tutti gli spiccioli rimasti, sembra sia impossibile progettare una qualsiasi ripresa. Ed ecco che il passaggio di un giovane (e bravo, per carità) direttore alla guida di una delle grandi orchestre americane non può che diventare un lancio in stile Hollywood, con tanto di brand (Gustavo!), minisiti, tecniche aggressive di marketing e persino un giochino elettronico, finanziato dall’orchestra, che ha fatto il giro del mondo.
È la strada giusta per uscire dalla crisi? Inutile domandarselo: è l’unica che questa industria dello spettacolo, i suoi finanziatori e i suoi improbabili manager, sappiano trovare. Personalmente la definirei una coazione a ripetere che ha del patologico. Ma immagino che trovare qualsiasi altra strada avrebbe comportato così tanto lavoro e così tante sfide intellettuali ed economiche che la sola speranza sarebbe stata da folli. Senza contare, e questo è forse l’elemento determinante, che sarebbe stato tutto infinitamente meno divertente. Il grande business della musica è un vecchio malato che gioca a fare il bambino, diviso tra la flebo e la playstation. Quello che ci chiede è solo di chiudere gli occhi e di giocare con lui; tutto tornerà come prima, promesso.
26 Agosto 2009 § § permalink
Ritorno al lavoro dopo un periodo di riposo, e purtroppo arriva subito una brutta notizia.
Domenica scorsa è scomparso Roberto Bosio, “direttore area artistica” del Teatro Regio di Torino nel gergo aziendalistico, anima dell’organizzazione e della produzione di quel teatro nella semplicità dei fatti. Mi ero ripromesso di non scrivere mai su Fierrabras a proposito delle realtà a cui sono lavorativamente legato, ma in questo caso vorrei fare un’eccezione, perché Roberto Bosio rappresenta qualcosa di troppo importante. Rappresenta il mondo delle persone che vivono il teatro in modo tale da permettere al teatro di vivere; persone che non appaiono sui giornali a fare dichiarazioni su questo o quello, che il pubblico spesso non conosce, ma che abitano la vita dello spettacolo in maniera al tempo stesso fortemente professionale ed emotivamente profonda; persone che vedono con chiarezza dietro ogni nota eseguita l’intreccio di arte e mestiere, virtuosismi e vanità, amori, rancori, contratti, proteste, glorie e disonori dal cui magma sempre nasce l’arte; ma che nonostante la chiarezza di questa visione mantengono in loro stessi un’intatta capacità di emozionarsi e di comunicare con umanità. Se uno spettacolo riesce, se un teatro va avanti nonostante l’eccezionale tasso di individualismo, se non persino di follia che ne pervade l’atmosfera, è grazie a queste persone. Che non sono poche, ma di cui Roberto Bosio resta un esempio.
Bosio era entrato al Regio come maestro collaboratore, si era laureato in Economia con una tesi sul mondo della produzione lirica (con Milena Boni, pioniera degli studi sul marketing dello spettacolo dal vivo); nel frattempo, per molti anni ha insegnato al conservatorio di Ivrea (se non ricordo male), fino alla nomina di vicedirettore artistico, arrivata nel culturalmente fecondo periodo Majer-Tessore; da allora è sempre rimasto nell’area della direzione artistica, e nell’avvicendarsi delle direzioni e delle sovrintendenze ha rappresentato la continuità e il punto di riferimento per gli artisti che con il suo teatro collaboravano. Era sposato, con due figlie ancora piccole.
Anche se ci assomiglia molto, questo però non voleva essere un necrologio. Volevo solo comunicare un particolare tipo di sgomento; nel teatro – e forse nella vita – ci sono persone che vedi arrivare, agitarsi, brillare – di luce propria o più spesso di luce riflessa – e poi allontanarsi veloci; non sai neppure dove siano andate, e tutto sommato neppure ti interessa tanto. Ce ne sono altre che incarnano invece la stabilità e la continuità; non sono alla ricerca di qualcos’altro, o almeno non ora, forse domani. Sono lì, sai che ci puoi contare, che la loro vocazione è risolvere i problemi e non crearli per fare rumore; andare sempre avanti, alla faccia di quell’atmosfera da apocalissi imminente che sempre intossica ed elettrizza i teatri. Bosio era una di queste persone: rarissime e difficilmente sostituibili per le aziende, ma soprattutto impossibili da pensare assenti per gli amici e i collaboratori. La vita artistica ha bisogno di entrambi i tipi di persone: le comete e le stelle polari. Ma è quando vengono a mancare queste ultime che lo sgomento ti afferra con maggiore intensità.