18 Settembre 2015 § § permalink
Al Metropolitan va in scena una nuova produzione di Otello con il tenore lettone Aleksandrs Antonenko nel ruolo del Moro di Venez… no, mi correggo, scusate, nel ruolo del gelosissimo generale veneziano e lasciamo stare il resto perché non si sa bene come metterla questa cosa qui, e come la dici la sbagli. Lo testimonia questa lenzuolata di articolo del New York Times e l’interminabile scia elettonica che si porta dietro.
Insomma, per la prima volta sulle scene della Metropolitan Opera, a Otello non verrà applicato il cerone “Otello brown”. La discussione nel mondo anglosassone va avanti da molto tempo e sulle scene di prosa ormai da anni il personaggio non viene più “blackened” – così come non si usa più l’ “Indian red” o il “Chinese yellow”.
Qualche giorno fa un dirigente teatrale mi raccontava della sua sorpresa quando scoprì che il tenore argentino José Cura, visitato in camerino pochi minuti prima del suo debutto nel micidiale ruolo di Otello (mai cantato per intero neppure alle prove), fosse soprattutto preoccupato dall’omogeneità del cerone nero, a suo avviso fondamentale per la credibilità del personaggio. E vengono in mente i tragicomici impasti multicolori sui volti sudati di mille tenori al momento degli applausi. Lo spavento di incontrare per i corridoi del retropalco i ballerini seminudi “anneriti” per le danze dell’Aida o di tante altre opere, o i fosforescenti ceroni gialli degli aiutanti del boia Pu Tin Pao che fumano una sigaretta appoggiati alla porta dell’ingresso artisti, in mezzo ai passanti di tutti i colori veri.
Vale la pena di rimpiangere? Forse no. Che i modi della rappresentazione riflettano le mode culturali e il dibattito politico è più che naturale, in fondo. È solo un pezzetto dello scontro fra chi vuole lo spettacolo come fonte di riflessione, e chi lo desidera simile a una bolla rassicurante nella quale riposarsi dal confronto con la contemporaneità – un po’ come i bambini vogliono le favole sempre uguali. Penso che una buona parte degli spettatori oscillino fra un estremo e l’altro, anche perché si può fare pessima riflessione sul presente e pessima ripetizione del passato.
È probabile però che sul cambio di gusto nel trucco e parruco teatrale, più che la correttezza politica poté la tecnologia: le rappresentazioni vanno in streaming nei cinema, sono riprese in dvd e in televisione, e la telecamera indaga da vicino le espressioni. Quegli occhi da orco che venivano disegnati sui volti dei cantanti, quei colori inverosimili da clown triste che ti facevano urlare di paura e poi scoppiare a ridere se incontrati d’improvviso al bar di fronte al teatro, erano nati per essere visti da lontano. Oggi il trucco dev’essere come gli occhiali multifocali, buoni per tutte le distanze di lettura (ma se non sei abituato cadi dalle scale e ti fai malissimo). E tutto deve essere verosimile (ma solo nel campo dell’immagine perché quell’uomo, truccato o meno, santo cielo, sta cantando invece di parlare!).
E poi tutto si veste di blabla politico, storico, culturale eccetera e uno non ci si raccappezza più. Basta leggere le centinaia di commenti al lungo articolo nel NYTimes. Ci sono perle di gallettismo elettronico come “E far cantare Otello a un nero, no?”. Come se piazzare un decente “Esultate!” fosse una questione di colore della pelle. Eppure, mi si dice, il razzismo nei teatri d’opera esiste eccome! Probabilmente è vero. In ogni caso non so se valga la pena di piangere la (momentanea?) scomparsa dei ceroni colorati. Si può invece spero impunemente notare come ogni scelta, oggi, persino in quella meravigliosa macchina o capsula del tempo che è il teatro d’opera, sia spaventosamente complicata. E come tutto ciò che diventa troppo difficile si avvicini pericolosamente al comico. Finché al mondo ci saranno persone complicate, ci sarà materia per la commedia. Provate a semplificare, e zac! subito scatta la tragedia.
26 Novembre 2013 § § permalink
Sur un mince cristal, l’hyver conduit vos pas;
Le précipice est sous la glace.
Telle est de vos plaisirs la légere surface:
Glissez, Mortels, n’appuiez pas.
Su un fragile cristallo, l’inverno conduce i vostri passi;
Il precipizio è sotto il ghiaccio.
Tal’è la sottile superficie dei vostri piaceri:
Scivolate, Mortali, non affondate il piede.
Ho sempre trovato splendida questa quartina scritta da Pierre-Charles Roy, un poeta francese del Settecento, nemico di Voltaire e di Rameau, librettista di Destouches, satirista violento e livoroso, accademico mancato, autore di una messe di versi, poemi, epigrammi e tragedie, ma ricordato quasi esclusivamente per quattro semplici e a loro modo “letteralmente” superficiali versi.
Comparvero, a quanto pare, per la prima volta in calce a un’acquaforte intitolata L’Hyver, l’inverno, incisa nel 1745 da Nicolas de Larmessin III, da un quadro di Lancret, parte a sua volta di una serie dedicata alle stagioni. Il dipinto raffigurava un laghetto e una fontana ghiacciati. Mentre la seconda è una specie di memento mori, con la sua divinità fluviale raggelata e circondata di stalattiti d’acqua cristallizzata, sul laghetto diverse figure sono intente a pattinare in una scena leggera e vitale, alcune in piedi, altre sdraiate dopo una caduta, una mentre viene aiutata a infilare un pattino con un gesto erotico e galante. Larmessin nell’incisione stringe su tre figure, le due intente alla vestizione e un elegante pattinatore alla Watteau.
Mi sono spesso domandato se Calvino conoscesse questi versi quando scrisse la sua “lezione americana” sulla leggerezza. Non sapevo tuttavia che la sua eco fragile e ghiacciata abbia risuonato anche nei grandi spazi silenziosi dello Zibaldone. E invece, sotto la data del 7 novembre 1820, si legge un meraviglioso appunto che riporto qui nella sua interezza.
Quel detto scherzevole di un francese Glissez, mortels, n’appuyez pas, a me pare che contenga tutta la sapienza umana, tutta la sostanza e il frutto e il risultato della piú sublime e profonda e sottile e matura filosofia. Ma questo insegnamento ci era già stato dato dalla natura, e non al nostro intelletto né alla ragione, ma all’istinto ingenito ed intimo, e tutti noi l’avevamo messo in pratica dafanciulli. Che cosa adunque abbiamo imparato con tanti studi, tante fatiche, esperienza, sudori, dolori? e la filosofia che cosa ci ha insegnato? Quello che da fanciulli ci era connaturale e che poi avevamo dimenticato e perduto a forza di sapienza; quello che i nostri incólti e selvaggi bisavoli sapevano ed eseguivano senza sognarsi d’esser filosofi e senza stenti né fatiche né ricerche né osservazioni né profondità ec. Sicché la natura ci aveva già fatto saggi quanto qualunque massimo saggio del nostro o di qualsivoglia tempo, anzi tanto piú, quanto il saggio opera per massima, che è cosa quasi fuori di se: noi operavamo per istinto e disposizione ch’era dentro di noi ed immedesimata colla nostra natura, e però piú certamente e immancabilmente e continuamente efficace. Cosí l’apice del sapere umano e della filosofia consiste a conoscere la di lei propria inutilità se l’uomo fosse ancora qual era da principio, consiste a correggere i danni ch’essa medesima ha fatti, a rimetter l’uomo in quella condizione in cui sarebbe sempre stato s’ella non fosse mai nata. E perciò solo è utile la sommità della filosofia, perché ci libera e disinganna dalla filosofia.
Tutta la sapienza umana, dice Leopardi, e forse non voleva esagerare. Pensare per liberarci dal peso del pensiero: quanto è vero. Glissons, allora. Non affondiamo, Mortali.
22 Novembre 2013 § § permalink
Ieri ho ricevuto una lettera da un avvocato milanese. È il legale di Mauro Meli, l’ex sovrintendente del Lirico di Cagliari, poi della Scala, poi del Regio di Parma. Mi invita a rimuovere “immediatamente” un post di Fierrabras “entro e non oltre il termine di tre giorni a far data dalla presente” eccetera eccetera. Logica temporale a parte, la lettera è persino cortese, ed è intesa a difendere “la reputazione” e “l’immagine professionale” del proprio assistito. Anzi, si dilunga nello spiegarmi che l’indennità percepita a Parma dal Maestro Mauro Meli era in realtà ben diversa da quella da me indicata – peraltro tratta da informazioni di stampa ancora presenti sul sito del giornale “La Repubblica”, prive di qualsiasi rettifica – ed era stata stabilita “in forza di un inquadramento contrattuale previsto dal CCNL dei Dirigenti d’azienda industriale (lo stesso applicato anche al successore Fontana)”. Meli in persona, in una lettera alla “Gazzetta di Parma”, precisava l’importo esatto della propria indennità e dava altri particolari sul contratto con il Teatro Regio. Onestamente a me sembrano gli stessi miei numeri, che oltre tutto nel post avevo anche evidenziato in una rettifica. Ma tant’è.
Pare in ogni caso che il mio post contenesse “impietosi giudizi […] del tutto falsi e fuorvianti” e pertanto, unica concessione alla minacciosità rituale (se si eccettua la tetra formula finale “Con ogni più ampia riserva. Distinti saluti”), l’avvocato mi avverte che, “in relazione ad articoli e post di contenuto identico al Suo, lo scrivente ha già promosso molteplici azioni legali con esito positivo nei confronti dei rispettivi autori”. Sembra di capire, con qualche difficoltà, che i rispettivi autori abbiano perso cause e dovuto pagare danni.
Ora, il post in questione, intitolato “È scandaloso lo stipendio di Meli?” (col punto interrogativo), è datato 7 ottobre 2009, ha avuto migliaia di visualizzazioni ed è stato nel frattempo ripubblicato 245 volte sulle bacheche di Facebook di altrettanti lettori. In esso mi limitavo a confrontare l’indennità percepita da Mauro Meli, secondo quanto risultava da articoli di stampa, con quella del più retribuito dirigente della Regione Lombardia. Per settimane Google mi ha avvertito della lettura del post da parte di studi legali lombardi, emiliani, e di siti istituzionali: qualche reazione, allora, me la aspettavo. Invece è arrivata oggi. Da quello che si legge in queste settimane sui giornali, in seguito alle tante polemiche scatenate intorno al suo costo aziendale e alla sua retribuzione a Parma, in particolare nel periodo delle ultime elezioni amministrative (in maniera effetivamente talvolta anche strumentale), Meli ha deciso di reagire con una campagna legale e di informazione piuttosto aggressiva.
Io il Maestro Mauro Meli lo incontrai quando era sovrintendente alla Scala, nel 2004. Lavoravo a un’inchiesta su quel teatro per il “Giornale della Musica”, e andai a intervistarlo. Era un periodo di grandi polemiche e battaglie intorno al teatro milanese, e gli feci tutte le domande che mi sembrava utile fare; lui rispose con gentilezza, diplomazia e furbizia, io riportai il tutto correttamente. Quell’articolo avrebbe dovuto essere seguito da un altro di verifica e di approfondimento, che tuttavia non arrivò mai: nel corso di una riunione nella redazione del GdM fui infatti violentemente contestato da Sergio Sablich, che non si capacitava di come avessi potuto lasciar dire a Meli le cose che aveva detto senza rispondere subito in maniera più polemica. Lui poco tempo prima era stato chiamato alla Scala in qualità di Consulente alla Direzione artistica, incarico dal quale aveva dato le dimissioni dopo avere lamentato pubblicamente una sorta di sordo mobbing interno, vicenda dalla quale era rimasto profondamente indignato e offeso. Non saprò mai se fui troppo ingenuo io con Meli o se Sablich sia stato troppo severo nel giudicarmi in quell’occasione, perché pochi mesi dopo lui scomparve improvvisamente, lasciando un vuoto ancora adesso incolmabile nella cultura musicale italiana – e nell’animo di molte delle persone che l’hanno conosciuto.
Uscito dalla Scala, Meli approdò al Regio di Parma, dove rimase in qualità di sovrintendente e direttore artistico fino a poco tempo fa. Moltissimo si è parlato su tutti i mezzi di informazione della sua retribuzione e delle sue capacità: il passaggio di Mauro Meli da un teatro è sempre stato accompagnato da forti dibattiti. Una semplice ricerca su Google mostrerà la folle quantità di informazioni più o meno veritiere, sempre difficilmente verificabili, che hanno accompagnato queste polemiche, da entrambe le parti. Ma come posso rispondere io, a tanti anni di distanza, e quando ormai di tutta la faccenda e del personaggio in questione mi importa tutto sommato assai poco?
Io so di avere scritto quel post, come gli altri di questo blog, con tutta l’onestà e l’accuratezza di cui sono capace, ma non ho né il tempo né le risorse per addentrarmi nelle cavillosità che una minaccia di querela richiede di esaminare. È inoltre noto che in Italia è molto facile perdere la causa se si viene querelati per diffamazione, e che l’istituto della “lite temeraria”, cioè la possibilità di rivalerti nei confronti di chi ti querela sapendo di avere torto (e non affermo certamente che sia questo il caso), è quasi desueto. E allora? E allora rimuovo, e magari non cancello. Quando avrò il tempo, se mai ne avrò voglia (cosa che per la verità dubito assai), verificherò se ha ragione il Meli o se avevo scritto cose corrette. Anche perché, e lo dico fuori da ogni tono polemico: a prescindere da quale che sia veramente la reputazione e l’immagine professionale di Mauro Meli, mi dispiacerebbe molto avere scritto cose sbagliate, e non sono mai certo, per principio, di essere dalla parte della ragione. Sparisce dunque, per ora, un vecchio post del 2009, probabilmente oggi del tutto inutile; spero tuttavia che non ci si stanchi mai di controllare e di discutere le cose della vita culturale italiana, al di là di ogni apparenza e nonostante ogni tono minaccioso. Da parte mia, per quanto posso, mi impegno.
7 Agosto 2011 § § permalink
Dopo il pasticciaccio brutto della cittadinanza onoraria capitolina, offerta dalla giunta di Alemanno a Riccardo Muti e poi sfumata nel vociare di beghe borgatare, ecco che la mejo destra tenta di riparare alzando la posta, e chiede la nomina del Maestro a senatore a vita. Ora si espone anche Carlo Rossella, il nostro Tom Wolfe formato Olgettina, con un raffinato pezzo di critica musicale nella sua rubrichina “Alta società” (sul Foglio), ormai da anni uno dei più efficaci spazi di approfondimento dell’imbecillità umana:
Straordinario Macbeth di Muti al Festival di Salisburgo. Il maestro sorride quando si parla della sua eventuale nomina a senatore a vita. Ma l’Italia glielo deve, nessuno al mondo dirige Verdi come lui.
L’idea non è né nuova né di per sé sbagliata. Il problema è un altro, e ancora una volta ricorda la palude italiana: con uno sponsor così, chi ha il coraggio di tirarsi indietro? Napolitano sarà sicuramente felice del consiglio.
La splendida foto di Muti nella “foresta di Birnamo” è di Kerstin Joensson (AP Photo/dapd)
28 Febbraio 2011 § § permalink
Riti di passaggio nel mondo dei grandi direttori. A 35 anni Daniel Harding debutta con la New York Philharmonic, e puntuale il New York Times gli dedica un’intervista che, sorprendentemente, prende una piega vagamente malinconica. Il titolo: “Un bambino prodigio cresce e diventa un semplice direttore giovane”.
Volendola riassumere con parole nostre, la sua storia è un po’ questa: un giovanissimo musicista viene venduto per dieci anni come fanciullo prodigio, si ritrova a dirigere le migliori orchestre del mondo intorno ai vent’anni d’età, a ventuno debutta con i Berliner, poi ottiene un contratto con una major discografica, poi inaugura la Scala, poi, poi… Poi si ritrova a 35 anni, con un calendario ancora gremito di impegni, con opportunità che pochissimi direttori suoi coetanei potrebbero avere, ma con un personaggio da reinventare, e forse con una vita un po’ a pezzi. A 35 anni sei un giovane direttore, non sei più ‘il folletto del podio’, l’‘esplosione di energia giovanile’ e le altre terribili castronerie che per dieci anni hanno affollato le poche righe che i giornali concedono ai senescenti critici musicali. Senescenti anagraficamente o più spesso psicologicamente.
Dove abita Daniel? Da nessuna parte. Le sue cose sono in un magazzino, dopo la separazione dalla moglie. Quale grande orchestra dirige? Nessuna in maniera stabile: quelle stesse istituzioni che lo invitavano per divertire un pubblico vecchio e assetato di gioventù come il conte Dracula, lo chiamano ancora perché è un buon nome, perché ancora c’è un po’ di scia dell’effetto ‘folletto’. Ma a parte qualche critico di qualche inserto culturale di qualche giornale confindustriale italiano, il tempo dei peana è passato, e ora viene quello della costruzione di un prestigio, di una credibilità da musicista maturo. Un’impresa tutt’altro che facile, in queste condizioni. Lui nel frattempo si lega a istituzioni con cui può crescere al riparo: Trondheim, in Norvegia; Norrköping, in Svezia; Brema, in Germania.
E adesso due concerti con la New York Philharmonic, per due sinfonie di Mahler. Come dice lui stesso, non è che uno va a New York e con un paio di prove spiega all’Orchestra che fu di Bernstein come si suona la Quarta di Mahler. La sfida è quella di non fare stupidaggini, di guidarli e lasciarsi guidare; quella di creare un rapporto di fiducia e di cercare di crescere ancora, magari anche imparando da loro.
Ma il pubblico, è questo che vuole da Harding? » Read the rest of this entry «
22 Febbraio 2011 § § permalink
Che cosa si può dire di Giuliano Ferrara che improvvisa una lezione di storia della musica in difesa del suo datore di lavoro, e lo fa citando dalla Breve storia della musica di Massimo Mila? Già si sapeva che Mila non rappresentò esattamente il culmine, la summa dell’esegesi verdiana. Ma leggere il Mila che spiega il melodramma italiano in antitesi al Romanticismo europeo (per via di semplificazione), è già di per sé abbastanza triste; leggerlo poi attraverso la rimasticatura sgangherata di Ferrara, è davvero sconfortante. L’articolo vale il tempo della lettura, perché dimostra una volta di più la distanza del mondo intellettuale italiano dalla musica; mai e poi mai Ferrara avrebbe potuto impancarsi storico dell’arte e tenere una concione squinternata su Piero della Francesca, o della letteratura scrivendo della morale in Manzoni, senza coprirsi di ridicolo. La citazione di Mila gli serviva ovviamente per fare ironia sull’ ”azionismo” di cui tanto si parla nelle ultime settimane, ma la quantità di sciocchezze, ‘elixir’ e tutto il resto, è abbastanza palese. La traduzione dell’idea di ‘paese del melodramma’, come luogo dell’amore innalzato a fine supremo, esclusiva patria dell’opera buffa e dello spasso solare, rappresenta veramente una falsificazione incredibile sia del melodramma ottocentesco, sia dell’Italia di oggi. Se infatti le notti di Arcore sarebbero più degne di Offenbach (orrore, un tedesco!) che del Donizetti buffo, l’atmosfera cupa e rabbiosa che domina l’Italia di oggi è effettivamente degna del Donizetti più disperato e del Verdi più severo. Fingere di dimenticare quanto preciso sia stato il ritratto impietoso, moralmente nettissimo e acuto, che il melodramma ottocentesco ha fatto del potere, della violenza politica, dell’asservimento popolare e della cortigianeria interessata, è veramente da bestie. Dispiace dirlo, ma è anche attraverso queste uscite che colui che vorrebbe farsi amare dal suo padrone come un Marchese di Posa, e che spesso è stato ritratto dai suoi nemici come uno Iago, finisce per manifestarsi come un semplice Marullo.
9 Febbraio 2010 § § permalink
Antonio Moresco è uno degli scrittori più interessanti del panorama italiano degli ultimi decenni. La sua non è una scrittura per amanti delle belle lettere, della frase flautata, della trama suadente. È letteratura come schiaffo che risveglia e disturba, che fissa gli occhi dove spesso evitiamo di guardare; non, o almeno non solo nel senso della denuncia, ma della rimozione inconscia. Quel tipo di letteratura che non si legge per sognare ma che della visionarietà fa un mezzo per risvegliare l’attenzione sul nostro modo di essere al mondo.
Ovvio che non si tratti di una letteratura dalla vita editoriale facile, e per chi volesse farsene un’idea il suo recente Lettere a nessuno, pubblicato da Einaudi nel 2008, può essere una lettura illuminante – a tratti esilarante, più spesso drammatica e sconfortante. Ma il suo libro maggiore, fortissimo e per certi versi sconvolgente, è Canti del caos (parte I, II e III), pubblicato da Mondadori l’anno successivo.
È in questo quadro che vorrei segnalare un bellissimo racconto – o forse più esattamente pièce teatrale – intitolato Duetto, compreso nel volume Merda e luce (Effigie, 2007). Mette in scena un dialogo immaginario tra Maria Callas e la tenia, il verme solitario che, secondo una vecchia leggenda del mondo operistico, il soprano avrebbe volontariamente ingerito allo scopo di perdere peso.
Crescendo nelle sue viscere attraversate dallo sconvolgente fenomeno del canto – che proprio dalle viscere nasce per diffondersi nella siderale luce dello spettacolo e dell’arte – la tenia lentamente impara a cantare, tanto da diventare un contrappunto interno alla voce della grande artista che la ospita, e uno degli elementi che la rendono inimitabile e misteriosa per tutto il suo pubblico.
Duetto è una lettura che, lo ripeto, potrebbe anche disturbare, ma che sicuramente parla di qualcosa di molto profondo e importante per chiunque ami la musica e più in generale l’arte e la letteratura. È una lettura che porta alla mente la domanda fondamentale su dove nasce la voce di un artista. E lo fa in un modo che solo un grande scrittore potrebbe escogitare.
Il racconto può essere scaricato in formato pdf dal sito della rivista Il primo amore.
«Non ne potevo più di tutta quella massa di lardo che era cresciuta col tempo attorno alla mia voce. Che la mia voce dovesse uscire da quella botte di grasso in forma di donna. Volevo sbarazzarmi di quel fardello perché rimanesse solo la voce, la mia voce. Si sentisse e si vedesse solo quella mentre spalancavo sui palcoscenici dei più importanti teatri del mondo la mia grande ciabatta greca incendiata dal rossetto sotto gli occhi sfavillanti e bistrati, quasi fuori dalla testa nello sforzo e nell’ebbrezza del canto. Voi là al buio, nelle grandi sale di velluto e d’oro, come altre creature ammaliate e impietrite di fronte al canto inventato dell’usignolo su un ramo, negli anfratti della terra, dell’aria. Oh, io capisco, io lo so cosa prova il corpicino ricoperto di piume dell’usignolo che si espande attraverso il canto! Cosa può provare l’allodola in un campo di grano mentre lancia il suo richiamo sessuale!»
30 Agosto 2009 § § permalink
Certe volte ti chiedi come gli sia venuto in mente, agli scienziati, di occuparsi di cose così. Non che siano inutili, anzi. Solo che le leggi e continui a chiederti come gli sia venuto in mente. Dunque: un gruppo di fisici acustici della University of New South Wales con sede a Sydney, in Australia, si è messo a studiare sistematicamente l’accoppiamento tra vocali e suoni in dieci opere liriche, da Rossini a Wagner, cercando di capire quale sia stato il compositore più attento al problema della facilità di emissione dei suoni e della loro intelligibilità. Li guidava il professor Joe Wolfe, wagneriano di ferro a partire dal cognome. Ma andiamo con ordine.
La fatica del soprano
Tutto è cominciato da una serie di studi sugli organi fonatori, e dalla raccolta di alcune interessanti informazioni riguardo all’emissione della voce nel canto e nel parlato. I primi risultati erano focalizzati sulla voce di soprano, che incontra nell’intonazione dei problemi del tutto peculiari rispetto agli altri registri. Ci informa infatti Wolfe che gran parte delle informazioni fonetiche, e in particolare quelle relative alle vocali, sono concentrate in suoni che vanno da 300 a 2000 Herz (Hz). Un basso che intona un sol basso emette un suono i cui armonici vibrano in fasce che si aggirano intorno ai 100, 200, 300 Hz (e via dicendo): questi armonici rendono intelligibile l’informazione fonetica necessaria a capire quale lettera dell’alfabeto (e in particolare quale vocale) il cantante sta in quel momento pronunciando. Nella tessitura acuta del soprano, invece, gli armonici (che sono multipli della frequenza di base) sono talmente distanti l’uno dall’altro che solo pochissimi di essi cadono nel range utile, e l’informazione fonetica si perde. È un fatto semplicissimo da osservare ascoltando una qualsiasi opera lirica: sopra una certa altezza è praticamente impossibile distinguere quale vocale stia intonando la cantante; semplicemente, per ottenere quelle frequenze, la cantante (ma in misura diversa anche il cantante) è costretto ad atteggiare il suo organo vocale in modo da rendergli impossibile (o almeno faticosissima) la pronuncia di vocali che richiedono un altra posizione – anche da questo nasce il vizio di alcuni cantanti di modificare il testo per renderlo pià corrispondente alle esigenze dell’intonazione. » Read the rest of this entry «
26 Agosto 2009 § § permalink
Ritorno al lavoro dopo un periodo di riposo, e purtroppo arriva subito una brutta notizia.
Domenica scorsa è scomparso Roberto Bosio, “direttore area artistica” del Teatro Regio di Torino nel gergo aziendalistico, anima dell’organizzazione e della produzione di quel teatro nella semplicità dei fatti. Mi ero ripromesso di non scrivere mai su Fierrabras a proposito delle realtà a cui sono lavorativamente legato, ma in questo caso vorrei fare un’eccezione, perché Roberto Bosio rappresenta qualcosa di troppo importante. Rappresenta il mondo delle persone che vivono il teatro in modo tale da permettere al teatro di vivere; persone che non appaiono sui giornali a fare dichiarazioni su questo o quello, che il pubblico spesso non conosce, ma che abitano la vita dello spettacolo in maniera al tempo stesso fortemente professionale ed emotivamente profonda; persone che vedono con chiarezza dietro ogni nota eseguita l’intreccio di arte e mestiere, virtuosismi e vanità, amori, rancori, contratti, proteste, glorie e disonori dal cui magma sempre nasce l’arte; ma che nonostante la chiarezza di questa visione mantengono in loro stessi un’intatta capacità di emozionarsi e di comunicare con umanità. Se uno spettacolo riesce, se un teatro va avanti nonostante l’eccezionale tasso di individualismo, se non persino di follia che ne pervade l’atmosfera, è grazie a queste persone. Che non sono poche, ma di cui Roberto Bosio resta un esempio.
Bosio era entrato al Regio come maestro collaboratore, si era laureato in Economia con una tesi sul mondo della produzione lirica (con Milena Boni, pioniera degli studi sul marketing dello spettacolo dal vivo); nel frattempo, per molti anni ha insegnato al conservatorio di Ivrea (se non ricordo male), fino alla nomina di vicedirettore artistico, arrivata nel culturalmente fecondo periodo Majer-Tessore; da allora è sempre rimasto nell’area della direzione artistica, e nell’avvicendarsi delle direzioni e delle sovrintendenze ha rappresentato la continuità e il punto di riferimento per gli artisti che con il suo teatro collaboravano. Era sposato, con due figlie ancora piccole.
Anche se ci assomiglia molto, questo però non voleva essere un necrologio. Volevo solo comunicare un particolare tipo di sgomento; nel teatro – e forse nella vita – ci sono persone che vedi arrivare, agitarsi, brillare – di luce propria o più spesso di luce riflessa – e poi allontanarsi veloci; non sai neppure dove siano andate, e tutto sommato neppure ti interessa tanto. Ce ne sono altre che incarnano invece la stabilità e la continuità; non sono alla ricerca di qualcos’altro, o almeno non ora, forse domani. Sono lì, sai che ci puoi contare, che la loro vocazione è risolvere i problemi e non crearli per fare rumore; andare sempre avanti, alla faccia di quell’atmosfera da apocalissi imminente che sempre intossica ed elettrizza i teatri. Bosio era una di queste persone: rarissime e difficilmente sostituibili per le aziende, ma soprattutto impossibili da pensare assenti per gli amici e i collaboratori. La vita artistica ha bisogno di entrambi i tipi di persone: le comete e le stelle polari. Ma è quando vengono a mancare queste ultime che lo sgomento ti afferra con maggiore intensità.
15 Luglio 2009 § § permalink
Mentre alcuni nuovi pezzi di Fierrebras non vogliono proprio scriversi da soli, ci sono mille notizie dal mondo della musica che mi piacerebbe condividere. Notizie che riflettono quanto esso sia complesso, articolato e un poco pazzo. Eccone tre di ieri.
La prima è una bella inchiesta del New Music Box, il sito internet dell’American Music Center, dedicata alla buona salute di cui godono – in un mercato discografico sconvolto dalla crisi economica e di idee – le etichette indipendenti specializzate nella produzione e distribuzione di musica contemporanea. Il loro modello di business non è certo quello delle major (i compositori o gli sponsor normalmente pagano la produzione del disco) ma il loro insostituibile compito è ricambiato da un successo che sta assumendo le dimensioni di un boom. Contro qualsiasi fosca previsione.
La seconda e la terza sono collegate. Un articolo del Times ci racconta del primo sciopero proclamato dai lavoratori del Festival di Bayreuth. Si tratta di 60 macchinisti e di un centinaio di lavoratori a contratto che contestano la legalità dei contratti firmati dall’ex direttore del Festival, Wolfgang Wagner. E così, mentre si lavora per mandare in scena l’ennesimo, sontuoso Tristan und Isolde, davanti alla consueta platea luccicante di uomini politici, magnati della finanza e alta borghesia internazionale, scopriamo che la paga oraria di un macchinista, di un elettricista o di un attrezzista impegnati sul palcoscenico è di circa 4 euro. Contemporaneamente, un articolo pubblicato sul sito di Bloomberg ci informa del fatto che Peter Gelb ha guadagnato nel 2008 circa 1,5 milioni di dollari con il suo lavoro di General Manager alla Metropolitan Opera di New York, con un incremento rispetto all’anno precedente del 36%. Che cosa c’entra? Boh, ognuno si faccia il suo parere.