Il Don Antonio di Tiziano Scarpa

31 Ottobre 2008 § 0 commenti

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Signora Madre, come faccio a farvi sentire quello che abbiamo suonato? Sapete leggere la musica, voi? Non posso far altro che aiutarmi con le immagini. Mi sembrava di spargere cipria sulle teste degli uomini seduti sui banchi della chiesa. Diffondevamo la nostra polvere profumata, la nostra spezia femminile su quella gente. Don Antonio ha scritto un concerto dove si sente schiumare la nostra indole di donne, presentata in tre fasi, prima la gaiezza, poi il languore, poi di nuovo l’euforia. Quest’uomo tira fuori dai nostri corpi suoni femminili, offre alle orecchie intasate di peli dei vecchi maschi la versione sonora delle donne, la nostra traduzione in suoni, così come la vogliono sentire i maschi. Eppure, nel dire questo non sono del tutto sincera. Oggi, ancora più di quanto avevo intuito durante le prove, ho sentito che stavo facendo qualcosa di più, don Antonio ci stava sforzando, ci stava facendo traboccare oltre noi stesse, precipitavamo oltre le balaustre, c’era qualcosa oltre la solita poesia aggraziata, oltre la frivolezza che si richiede ai nostri concerti, un fervore più scomposto, sfrontato, nei movimenti veloci, e uno sconforto disdicevole, senza consolazione nell’adagio.

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Chi scrive è Cecilia, fanciulla dell’Ospedale della Pietà; la Signora Madre è la figura materna che non ha mai conosciuto, essendo stata abbandonata appena nata sulla ‘ruota’ dell’Ospedale, così come quasi tutte le sue colleghe e convittrici; Don Antonio è naturalmente Vivaldi, il prete rosso che insegna violino alle ‘figlie di coro’ dal 1703 al 1740. È una delle lettere che compongono Stabat Mater, il nuovo libro di Tiziano Scarpa, costruito come un ‘romanzo di formazione’ che indaga la crescita umana e spirituale di una di quelle misteriosi e affascinanti figure che erano le ragazze degli Ospedali veneziani. In una curiosa Nota al termine del volume (curiosa in un opera di narrativa), Scarpa racconta il suo rapporto con la musica di Vivaldi, dei 200 CD del compositore che possiede, del suo essere venuto al mondo al reparto di maternità dell’Ospedale Civile di Venezia, che in quegli anni aveva sede nel palazzo in cui prima si trovava proprio l’Ospedale della Pietà. Quasi una predestinazione, vorrebbe dirci.

scarpaMa Stabat Mater non è una biografia romanzata di Vivaldi né un romanzo storico; nella trama gli appassionati vivaldiani troveranno parecchie inverosimiglianze e falsificazioni: Scarpa ne è ben consapevole e le ammette senza difficoltà nella Nota, domandando indulgenza agli estimatori e agli esperti. Anche se l’arco temporale non è chiarissimo, la lettura porta infatti a pensare che sia l’esecuzione dell’oratorio Juditha Triumphans sia quella dei concerti delle ‘Quattro stagioni’‘ fossero avvenute poco dopo l’arrivo di Don Antonio all’Ospedale, cosa senz’altro non vera. Altre inverosimiglianze o falsificazioni riguardano i riferimenti (in qualche modo velati) a singole opere e così via. “Mi sono preso la libertà di fantasticare a partire da una suggestione storica, senza badare troppo alla verosimiglianza documentaria”, chiarisce ancora nella Nota.

Forse, le inverosimiglianze più grandi non sono da ritrovare negli aspetti storici e documentari, quanto in alcuni accenti, in alcune immagini e in alcuni pensieri che Cecilia scrive nelle sue lettere. La scena in cui Vivaldi porta le allieve in gita a un mattatoio e costringe Cecilia a uccidere con le sue mani un agnello è fortemente inverosimile; più di ogni questione cronologica. Ma anche in questo Stabat Mater è una fantasticheria: ciò che gli importava indagare e raccontare era presumibilmente la psicologia di una ragazza dell’Ospedale, la sua angoscia, la sua reclusione reale ed esistenziale, il rapporto con l’esterno e con le istituzioni, prima di tutto quella famigliare rappresentata dallo sconosciuto legame materno; e soprattutto l’influenza che una musica teatrale, rappresentativa, libera e passionale come quella di Vivaldi può portare in un animo complesso e ricettivo come questo. E in ciò riesce pienamente: il libro si legge tutto d’un fiato e lascia un segno. È la voce interiore di Cecilia che riesce a non essere un esercizio di stile, che prende corpo e ci parla direttamente. È un libro che verrebbe voglia di definire vivaldiano anche nel suo colpire fulmineamente e felicemente, senza troppa preoccupazione di completezza, verosimiglianza e rotondità.

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