Il trombonista e il miliardario

21 Dicembre 2008 § 0 commenti § permalink

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Un altro caso che fa riflettere sul diritto di critica, e sulle regole connesse. Molti ricorderanno il nome di Gilbert Kaplan, l’ex giornalista e prodigio di Wall Street, che dopo aver fondato un giornale finanziario nel 1965 e averlo diretto per molti anni, riuscì a venderlo nel 1990 per 72 milioni di dollari, dedicandosi poi quasi a tempo pieno allo studio e alla direzione di un’unica composizione, la Seconda Sinfonia di Gustav Mahler. Il ritratto migliore l’ha fatto nel novembre scorso l’Economist. Kaplan aveva sentito per la prima volta nel 1965 la sinfonia diretta da Stokowski e ne era rimasto letteralmente fulminato; all’epoca non sapeva neppure leggere la musica, ma era già una personalità rilevante della finanza mondiale. Negli anni la sinfonia “Resurrezione” divenne per lui quasi un’ossessione: passa mesi tra lezioni private di musica e di direzione da musicisti come Bernstein, Solti e Slatkin per venirne a capo; nel 1982 affitta il Lincoln Center, paga un’intera orchestra (la American Symphony Orchestra) e dirige per la prima volta la sinfonia dei suoi sogni davanti a un pubblico di economisti giunti a New York per un importante convegno. Fin qui nulla di troppo strano; di facoltosi dilettanti è piena la storia, e Kaplan non è stato né il primo né l’ultimo a togliersi uno sfizio gigante come quello di dirigere un’orchestra pagandola. Ma la vicenda di questo strano e a modo suo geniale personaggio è andata ben oltre. Oggi non solo ha diretto più di 50 orchestre, fra cui tutte le migliori del mondo – Scala compresa, nel 1992 – ma ha inciso la Seconda di Mahler ben due volte, la prima con la London Symphony, la seconda per la Deutsche Gramophon con i Wiener Philharmoniker. E, come se non bastasse, il primo dei due dischi, inciso nel 1985 per la Conifer, ha venduto più di 180mila copie, superando di gran lunga qualsiasi altro direttore, da Bernstein ad Abbado.

Ma c’è di più. Nel 1992 compra da una biblioteca olandese la partitura autografa della sinfonia, e la pubblica in fac-simile. Colleziona le decine di partiture a stampa contenenti le annotazioni autografe di Mahler, pubblica una nuova edizione critica integrandone le informazioni più rilevanti, scrive numerosi saggi e articoli. Il mondo della musicologia è diviso, ma nessuna voce critica si fa sentire con particolare forza: Kaplan sembra essere persona troppo intelligente e influente per attirare vere antipatie. Fino a qualche giorno fa.

L’8 dicembre scorso, infatti, Kaplan dirige per la prima volta la “sua” sinfonia con la New York Philarmonic; non è un’orchestra qualunque: è l’orchestra che Mahler stesso, negli ultimi e difficilissimi anni di vita, accettò di dirigere stabilmente, lasciando Vienna. È anche l’orchestra/simbolo del grande Lenny, uno che di Mahler se ne intendeva. Oltre tutto nella serata dell’8 si celebrava il centenario del compositore, e il concerto rivestiva pertanto una rilevanza tutta particolare. La serata andò come le precedenti: tutti sanno che il gesto di kaplan non è né elegante né comunicativo, che le sue esecuzioni non sono certo impeccabili, che a volte stenta a mantenere il controllo della difficilissima partitura, e via dicendo; ma qualcosa nel lavoro di Kaplan attira il pubblico e la critica, e forse la pubblica proiezione dell’idea di un sogno che si realizza non è estranea alla questione; fatto sta che la sala è, come del resto in quasi tutti i concerti di Kaplan, totalmente piena fino agli ultimi ordini di posti. Il New York Times manda un suo critico, che scrive il pezzetto d’ordinanza con qualche freddezza e molte lodi. Tutto tranquillo, apparentemente.

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Il 15 dicembre accade tuttavia l’imprevedibile. Uno strumentista dell’orchestra, il trombonista David Finlayson, apre un blog (Fin Notes) e scrive un post in cui manifesta tutto la sua indignazione per l’affronto subito dall’orchestra. Quello che scrive è quanto nessun critico ha mai avuto la voglia o il coraggio di scrivere: Kaplan non sa dirigere; è incapace di mantenere un tempo corretto, di dare una qualsiasi forma alle frasi, di realizzare le indicazioni dinamiche e di mantenere l’equilibrio sonoro; in numerosi passaggi solo la professionalità dell’orchestra lo salva dal disastro; persino la sua tanto sbandierata conoscenza enciclopedica della partitura è una bufala; insomma, il direttore è un autentico ciarlatano, paragonabile al personaggio interpretato da Brad Pitt in Prova a prendermi (Catch me if You can).

Apriti cielo. La notizia viene ripresa con grande risalto dallo stesso New York Times che aveva mandato il suo critico benevolo, e scoppia il caso. L’opinione pubblica, se ha ancora senso definire così le molte reazioni che giungono ai siti dei giornali e ai blog, è divisa, così come del resto lo è anche la critica. Alcuni sostengono che Finlayson ha tutto il diritto di esprimere quella che, a giudicare dall’articolo del NYT, è l’opinione condivisa da gran parte dei suoi colleghi. Che lo sbaglio, caso mai, l’ha fatto il management dell’orchestra, invitando una figura come Kaplan a dirigere da un podio dell’importanza storica e artistica della NY Philharmonic. Altri sostengono invece che il comportamento del trombonista è ingiustificabile, e che scrivendo quello che ha scritto è venuto meno ai suoi doveri di fedeltà e discrezione nei confronti dei colleghi e dei suoi datori di lavoro. In molti invocano persino una punizione esemplare, la sospensione o il licenziamento. Tra le voci decisamente critiche nei confronti di Finlayson si leva anche quella, sempre acuta e severa, di Norman Lebrecht (che tuttavia non nasconde la sua vecchia amicizia con Kaplan – e che pochi giorni prima aveva scritto una sorta di peana per l’avvenimento newyorkese).

finlaysonChi ha ragione? Finlayson doveva tacere o aveva il diritto di scrivere quello che ha scritto? Il fatto che a un facoltoso dilettante come Gilbert Kaplan vengano concesse possibilità che a molti direttori ben più capaci di lui saranno sempre negate è uno scandalo o un fatto del tutto normale? È strano, ma dovendo dire la mia, io sceglierei entrambe le risposte. Finlayson forse poteva (o meglio doveva) scegliere mezzi più ortodossi per manifestare il suo disappunto, che avrebbe dovuto colpire per primo il sovrintendente dell’orchestra. Ma che la qualità effettiva degli interpreti sia così spesso dimenticata da coloro che per mestiere dovrebbero garantirla (o che dovrebbero vigilare su di essa), a tutto vantaggio di aspetti economici o di marketing, è indubbiamente scandaloso, anche non rivestendosi della palandrana del moralista. Zarin Mehta, il sovrintendente dell’orchestra ha negato all’intervistatore del NY Times qualsiasi pagamento da parte di Kaplan, ma tutti sanno benissimo che le istituzioni musicali americane hanno un dannato bisogno di denaro privato, e il sostegno di una figura come Kaplan non è certo qualcosa da mettere in secondo piano. Ciò non toglie che quel concerto suonava veramente stonato. Dimenticavo: Kaplan dirigeva con la bacchetta di Mahler: sua anche quella.

PS. Stamattina ho assistito a un pezzo del concerto di Giovanni Allevi nella sala del Senato della Repubblica Italiana. A parte i toni da cinegiornale Luce dei commenti televisivi, sono rimasto molto impressionato da quel che vedevo e sentivo. Che cosa c’entra? Mah, è difficile spiegare, eppure c’entra…

Se il critico antipatico si ribella

15 Dicembre 2008 § 0 commenti § permalink

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Mentre le pagine musicali dei giornali di tutto il mondo e gran parte dei blog festeggiavano i due centenari di questo dicembre – quello di Carter, meravigliosamente creativo e longevo, e quello del grandissimo Messiaen – una notizia proveniente da Cleveland ha cominciato a serpeggiare per la rete, facendo nascere un dibattito discretamente rumoroso.

In poche parole la storia è questa: Donald Rosenberg è il critico di “The Plain Dealer”, il maggiore quotidiano di Cleveland, Ohio, città che come si sa ospita una delle 5 migliori orchestre americane (le cosiddette Big Five). Da quasi trent’anni Dan segue l’orchestra in tutte le sue uscite, sia cittadine sia in trasferta. È uno di quei critici localmente importanti, quelli che in America – come da noi – sono in qualche modo “embedded”: ha il pass per andare nei camerini dopo il concerto, può utilizzare alcune strutture del teatro per scrivere o inviare i pezzi, in caso di trasferta viaggia con i musicisti, ha un rapporto privilegiato con la dirigenza dell’orchestra, eccetera. Poi un giorno qualcosa comincia a cambiare. Rosenberg non sembra apprezzare incondizionatamente Franz Welser-Möst, il direttore austriaco nominato “music director” nel 2002 e, di rinnovo in rinnovo, garantito alla Cleveland Orchestra fino al 2018 (!). Continua a scrivere dell’orchestra in tono elogiativo, ma prende sempre più spesso le distanze dal direttore, tanto da far ritenere alla dirigenza dell’orchestra che possa trattarsi di una questione personale; cominciano le “presunte” pressioni sulla direzione del giornale, e soprattutto cominciano a essergli inviati i messaggi di scarso gradimento: niente più viaggi sul pullman dell’orchestra, la maschera che lo ferma mentre va ai camerini degli artisti dopo il concerto, l’accesso agli uffici che gli viene negato, i funzionari che non si fanno trovare. Insomma, il tipico incubo del critico caduto in disgrazia.

Finché nel settembre scorso, con una decisione che negli Stati Uniti fece abbastanza discutere, il giornale non comunicò al suo critico senior che non avrebbe più dovuto occuparsi della Cleveland Orchestra. Avrebbe continuato a scrivere di tutto, ma non dell’orchestra; a questa avrebbe pensato un altro critico, tale Zack Lewis. Era semplicemente stato “sollevato” dall’incarico, così come eufemisticamente si dice da noi.

Fin qui la storia non è del tutto inconsueta. Di giornalisti o critici scomodi, o comunque non amati, è piena la storia della carta stampata, e le loro rimozioni o i loro “silenziamenti” non sono stati pochi. Anche da noi. La notizia di questi giorni, però, annuncia un epilogo diverso: Dan Rosenberg ha citato in giudizio il suo giornale e la dirigenza dell’orchestra, accusando quest’ultima di una “campaign of vilification” (che lingua straordinaria, l’inglese!), con conseguente diffamazione e danno alla sua credibilità; il risarcimento è quantificato in 50.000 dollari, ma è chiaro che lo scopo della citazione in giudizio non è di carattere meramente economico.

rosenbergVedremo come andrà a finire, però è una notizia che fa riflettere. La pubblica discussione che ne è seguita tocca alcuni dei temi più importanti che riguardano la figura del critico e il suo ruolo nella società. Una parte dell’opinione pubblica si è schierata con il teatro: se il pubblico è contento di un artista, leggere una voce critica che si leva tanto ricorrentemente da essere quasi prevedibile può disturbare non solo la dirigenza dell’orchestra, ma anche i comuni lettori. L’altra posizione, apparentemente prevalente sui media, è quella che ritiene che anche un critico possa avere le sue idiosincrasie, e che finché egli le esprime con la dovuta professionalità, e motivando le sue affermazioni, non c’è motivo al mondo per cui dovrebbe essere rimosso dal suo incarico.

Vengono in mente i tanti casi in cui anche dalle nostre parti i critici hanno dimostrato un’antipatia (o una simpatia) ricorrente per un interprete; gli altrettanto numerosi casi in cui la critica si è dimostrata pavida o troppo benevola nei confronti di una determinata istituzione culturale o musicale; e i tanti casi in cui una certa istituzione musicale si è dimostrata aggressiva nei confronti della critica e persino della pubblica opinione. Viene in mente la Scala degli anni di Muti, e la sua posizione nei confronti della libera espressione delle opinioni: l’arroganza di voler decidere chi dovesse entrare e chi no alle rappresentazioni, le pressioni (sempre presunte, naturalmente) sui direttori dei giornali, persino la comica (ma non troppo!) presenza della forza pubblica nel loggione (i carabinieri, come in Pinocchio). E naturalmente la Scala è il caso più vistoso, ma non certamente l’unico. Qualcuno si ricorderà della lettera al direttore del Corriere, firmata da una buona parte della intellighenzia italiana, per chiedere la rimozione di Paolo Isotta, critico antipatico quant’altri mai. Insomma il mestiere del critico, nonostante il fatto che il suo ruolo sia diventato qualcosa di decisamente marginale nel mondo della comunicazione – e che i suoi spazi si siano ristretti di conseguenza – rimane percepito come qualcosa di instabile, di inevitabilmente soggetto alla benevolenza o al livore della classe dirigente.

In un mondo in cui gli sponsor contano quanto e talvolta più degli abbonati e degli spettatori affezionati, in cui dunque la comunicazione degli “eventi” si preoccupa di far giungere i suoi messaggi extramusicali a uno spettro ben più ampio di persone di quelle normalmente interessate alle recensioni, la critica musicale è diventata il retaggio di un mondo passato; li vedi in sala con l’aria dei giudici supremi, vedi come si pregustano la punizione per il tenore che ha stonato, il corno che ha scroccato, il direttore che ha preso il tempo troppo veloce; li vedi con l’aria mondana e compiacente mentre sussurrano gentilezze al sovrintendente, o pontificano per un ristretto pubblico di signore in ammirazione. La penna nel taschino, il programma di sala in mano, l’aria raramente felice. E senti che è un mestiere fuori moda, fuori dal tempo, come il bigliettaio sui tram, il portiere in livrea; un dinosauro tenuto in vita per lusso, per tradizione a esaurimento; un giapponese nella giungla che combatte una guerra finita da vent’anni: la guerra di quando un concerto o una serata d’opera non erano “entertainment”, ma eventi di cui era necessario stabilire il livello e il diritto d’accesso alla categoria del memorabile, testimoniata in eterno dalla carta stampata. Il critico era la memoria storica, il grande comparatore, il temuto e spiritoso intellettuale che staccava i biglietti d’accesso al tram della gloria artistica, il custode in livrea davanti al portone della fama meritata.

Oggi la sola idea di dedicare spazio a un evento a posteriori, quando cioè i biglietti sono già stati venduti e addirittura il fatto si è già svolto, sembra una cosa fuori tempo. La differenza tra cri
tica e attività promozionale è labilissima, come può testimoniare il mondo della pubblicistica letteraria (gli inserti dei quotidiani in primo luogo). I giornali e le televisioni sono straordinari veicoli di informazione pubblicitaria più o meno gratuita – lo scambio c’è, ma non si vede – e non hanno più alcun interesse per il ruolo dei custodi della memoria storica. Così la critica musicale, intesa come il severo e competente giudizio che arriva due o tre giorni dopo una serata di musica a cui hanno presenziato 1.000 persone a dire tanto, è qualcosa che non interessa più praticamente nessuno. A meno che… A meno che non si dimostri troppo scomoda, e allora diventa improvvisamente qualcosa di rilevante, un fastidio da rimuovere al più presto. Ecco che magicamente, attraverso l’antipatia e la malmostosità, il critico riacquista la sua dignità e il suo lustro. Contro di lui cominciano oscure manovre sotterranee, e l’indipendenza dell’informazione viene messa alla prova.

Ma il critico che ricorre al giudizio di un tribunale per difendere la propria dignità professionale, andando contro la dirigenza delle istituzioni culturali della propria città e persino contro la direzione del proprio giornale, non è una cosa consueta; è un colpo di coda inaspettato. L’appello alla legge perché venga sancito il sacrosanto diritto a essere fuori dal tempo – la privata liceità e soprattutto la pubblica utilità dell’essere antipatico – è una novità da seguire con interesse.

Immagine in alto: Il critico, incisione di Honoré Daumier. Più sotto: Daniel Rosenberg, foto di Allison Carey/The Plain Dealer.

Buon compleanno, Krystian!

5 Dicembre 2008 § 1 commento § permalink

Così per rompere il silenzio, facciamo gli auguri a Krystian Zimerman, che è nato 52 anni fa a Zabrze, in Slesia (Polonia). E per festeggiarlo, ci possiamo gustare questo bellissimo documento: la Mazurca che suonò in quella magica serata del 1975 in cui, a 18 anni, vinse lo Chopin di Varsavia. Quell’incredibile controllo, quell’incandescente distacco che ce lo fanno amare c’erano gia tutti.

Radio classiche? Chiudere subito!

20 Novembre 2008 § 0 commenti § permalink

concertzender

Mentre le emittenti radiofoniche dedicate alla musica classica stanno affrontando difficoltà economiche più o meno gravi in tutto il mondo, c’è n’è una che prospera, se non economicamente, in fatto di abbonati e ascoltatori. Si tratta della storica Concertzender, un’emittente olandese che, come la nostra coraggiosa amica Rete Toscana Classica, è ascoltabile anche attraverso la rete, ma a differenza di quest’ultima appartiene al circuito del Sistema radiofonico pubblico olandese (NPO — Nederlandse Publieke Omroep), e dipende quindi largamente da un contributo pubblico che si aggira intorno ai 500 mila euro annui. Concertzender può tuttavia contare anche su un nutrito gruppo di sostenitori privati, che contribuiscono sia con il lavoro volontario sia con aiuti economici al sostentamento della loro emittente amica. Oltre alla musica classica (con un canale dedicato all’antica) Concertzender trasmette musica world e jazz, oltre a registrare decine di concerti dal vivo per diffonderli in un canale streaming dedicato. Gli ascolti vanno bene e crescono, e i contatti via etere e via rete si aggirano intorno alle 600 mila unità, senza contare gli ascoltatori via cavo.

Bene, dovrebbero essere tutti felici di un gioiello del genere, vero? E invece no. Perché 600 mila ascoltatori sono davvero troppi, e danno fastidio. E dunque i dirigenti delle altre radio pubbliche hanno chiesto a gran voce allo stato il taglio dei finanziamenti a Concertzender. E, incredibile a dirsi, l’hanno ottenuto. Ieri l’altro è stato comunicato ai dipendenti dell’emittente che l’amministrazione pubblica ha deciso per la sospensione del finanziamento (attenzione, non a causa della crisi, ma per ridistribuire il contributo destinato a concertzender sulle altre emittenti attive – non di classica, ça va sans-dire). Gli ascoltatori di tutto il mondo si stanno mobilitando, ma l’efficacia della protesta è dubbia. I dirigenti e i collaboratori, invece, stanno facendo i loro conti per capire se sarà possibile proseguire le trasmissioni dopo il taglio del sostegno pubblico. Quello che gli ascoltatori vecchi e nuovi possono fare, è mandare un messaggio a questo indirizzo, dicendo con tutti i punti esclamativi del caso che quella del taglio dei finanziamenti è veramente una pessima idea.

E c’è anche da dire che la questione degli ascolti alti ma non abbastanza, dei finanziamenti e dell’indifferenza nei confronti della sostanziale scomparsa della musica classica (e jazz, e world di alto livello) dalle trasmissioni radio ricorda molto da vicino la più volte minacciata eliminazione del canale Auditorium della (ex) filodiffusione, ascoltabile purtroppo in poche città italiane via radio, e su tutto il territorio raggiunto dall’Adsl via internet. Che rabbia.

AGGIORNAMENTO DEL 20 NOVEMBRE 2008

Qualcosa si muove. Dopo le proteste via internet arrivate da tutto il mondo, il ministro della cultura olandese ha dichiarato che farà pressione sul Nederlandse Publieke Omroep (NPO) perché i contributi a Concertzender non vengano sospesi. Qui la pagina in cui l’emittente annuncia la novità.

A Nackerter im Hawelka!

8 Novembre 2008 § 0 commenti § permalink

danzer

Che ci fa un uomo nudo da Hawelka? Visto che a parlare di caffè viennesi si passa subito per nostalgici, ecco il link al video di una famosa canzone di Georg Danzer: Jö schau! (che vorrebbe dire Hei guarda!). Danzer è un cantautore viennese morto nel 2007, portato al successo nel 1975 proprio da questa canzone, famosissima in Austria; da lì nacque il famigerato austropop, il genere dominante per decenni nei palinsesti delle radio locali. Parla di un cliente che vede entrare un uomo nudo da Hawelka: è cantata in viennese stretto, praticamente incomprensibile fuori dal Graben e dintorni (chi volesse provare a tradurla, si accomodi). La cosa divertente è che nel video, molto anni Ottanta, si vedono Leopold Hawelka e signora nel loro locale, nonché una buffa ricreazione della clientela tipica. Un simpatico tizio ha provato davvero a entrarci, nudo o quasi, da Hawelka, e a far filmare le reazioni dagli amici; e questa volta, insieme a uno sconcertato Leopold si vede anche il figlio Günther, che lo tira per un braccio. Spirito viennese: un po’ greve alla lunga, ma sempre divertente

L’Europa, da Hawelka

5 Novembre 2008 § 1 commento § permalink

hawelka1

La luce calda delle lampadine a incandescenza, i tavoli rotondi di legno con il ripiano di marmo, le sedie e gli attaccapanni Thonet, il velluto rosso a righe grigie e rosa dei divanetti, l’espositore con i giornali di tutta Europa, l’odore di caffè e di fumo, i suoni, le risa e i silenzi di quanto rimane della civiltà della conversazione. Non occorre aggiungere molto altro per descrivere un caffè di una qualsiasi città europea, ma questo in particolare è (o era?) uno dei più belli. Parlo del Café Hawelka di Dorotheergasse, a Vienna: chi c’è passato non lo dimentica facilmente. Mi è capitato di leggere per caso sul «Nouvel Observateur» il bellissimo articolo che Bernard Géniès ha dedicato a questa istituzione della socialità viennese il 7 agosto scorso, e ho pensato di riportarlo qui. Io ci sono capitato vent’anni fa, accompagnato da un’amica greca che studiava a Vienna e da un barbuto musicologo austriaco di lei segretamente innamorato, ma troppo intrappolato dalle rigidità mitteleuropee per dichiararsi. Tentò la carta della vita intellettuale notturna: ci fece entrare nel bellissimo caffè verso le dieci, e aspettò che arrivassero i leggendari Buchteln, i dolci con la marmellata calda dalla misteriosa ed esclusiva ricetta di Fräulein Hawelka, che compaiono all’improvviso solo dopo quell’ora, accolti da un compiaciuto mormorìo; li ordinò da vero habituè e aspettò che facessero il loro effetto sugli ospiti provinciali (in realtà l’unico a non averli mai provati ero io). Lo stratagemma erotico non sortì l’effetto desiderato sulla ragazza, ma per me fu una grande e piacevolissima sorpresa, una specie di debutto in società, dopo la delusione dell’anonimo Café Central, in cui ero stato spinto dalla letttura di Danubio, il libro-culto del Claudio Magris di quegl’anni. Ci tornai tutte le volte che potevo, nel tentativo (ovviamente vano), di diventare un habituè anch’io. Buchteln e tutto quanto.

Géniès scrive del mondo che si riuniva in questo caffè, degli scrittori e degli artisti, della bellissima storia di Leopold e Josefine Hawelka. Loro non ci sono più, e la ricetta dei Buchteln è passata ai figli Günther e Herta, e ai nipoti Amir e Michael. Sarà uno dei nipoti ad aver avuto l’idea del sito internet? Ora il locale è stato un po’ ripulito ed è ormai una meta turistica necessaria per chi voglia provare l’esperienza del caffè viennese; forse è giusto oltre che inevitabile che sia così, fa parte del normale ciclo di vita delle cose belle. Rimangono i ricordi, e naturalmente quella parte di atmosfera che il tempo non cancella. Géniès cita qualche aneddoto: bellissimo quello di Bernhard frequentatore fisso che un giorno stupisce tutti massacrando i suoi stessi compagni di caffè nel terribile A colpi d’ascia; ma continua a sedersi al suo tavolo, finché un giorno Leopold non gli chiede una dedica sul frontespizio di un suo romanzo per una cliente: Bernhard accetta educatamente, scrive quello che deve scrivere, e poi scompare per non tornare più. È proprio lui, come il mondo lo ha amato; e forse bisogna anche ricordare la sua massiccia demolizione del culto dei caffè viennesi, Hawelka compreso, nel Nipote di Wittgenstein.

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Sui caffè viennesi è stato scritto molto, e altrettanto è stato ricamato. Per qualche anno sono stati descritti come il centro nevralgico della civiltà culturale della mitteleuropa; erano gli anni d’oro di Magris, quando Musil era molto più letto di Proust, Thomas Mann era il grande classico del Novecento, Canetti la mirabile riscoperta, Mahler metteva alla prova ogni impianto stereofonico, Abbado, Sinopoli, Bernstein e altri ancora riportavano il secolo breve della musica alla sua vera lunghezza, addolcendo senza melassa il ricordo di un mondo inghiottito dagli orrori bellici e dall’onta dell’olocausto. Oggi sono cambiate molte cose: la nuova Europa ha tolto parte del suo misterioso fascino alla vecchia, mille nuovi problemi spingono a guardare altrove, il mondo si è ristretto e la questione delle radici culturali ha rivelato ancora una volta i suoi aspetti inquietanti. Eppure la forza con cui le vestigia di quella grande civiltà culturale e artistica sanno colpirci è ancora straordinaria; non è solo una rete di ricordi ancora largamente diffusa nella memoria collettiva, ma il riaffacciarsi di cose che hanno determinato e tuttora determinano parte del nostro modo di vivere e di pensare all’arte, alla bellezza e alla società civile. Una pagina, certo, non l’intero libro. Ma una pagina di quelle che se ti capita di saltare poi non capisci più il resto della trama.

Il Don Antonio di Tiziano Scarpa

31 Ottobre 2008 § 0 commenti § permalink

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Signora Madre, come faccio a farvi sentire quello che abbiamo suonato? Sapete leggere la musica, voi? Non posso far altro che aiutarmi con le immagini. Mi sembrava di spargere cipria sulle teste degli uomini seduti sui banchi della chiesa. Diffondevamo la nostra polvere profumata, la nostra spezia femminile su quella gente. Don Antonio ha scritto un concerto dove si sente schiumare la nostra indole di donne, presentata in tre fasi, prima la gaiezza, poi il languore, poi di nuovo l’euforia. Quest’uomo tira fuori dai nostri corpi suoni femminili, offre alle orecchie intasate di peli dei vecchi maschi la versione sonora delle donne, la nostra traduzione in suoni, così come la vogliono sentire i maschi. Eppure, nel dire questo non sono del tutto sincera. Oggi, ancora più di quanto avevo intuito durante le prove, ho sentito che stavo facendo qualcosa di più, don Antonio ci stava sforzando, ci stava facendo traboccare oltre noi stesse, precipitavamo oltre le balaustre, c’era qualcosa oltre la solita poesia aggraziata, oltre la frivolezza che si richiede ai nostri concerti, un fervore più scomposto, sfrontato, nei movimenti veloci, e uno sconforto disdicevole, senza consolazione nell’adagio.

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Chi scrive è Cecilia, fanciulla dell’Ospedale della Pietà; la Signora Madre è la figura materna che non ha mai conosciuto, essendo stata abbandonata appena nata sulla ‘ruota’ dell’Ospedale, così come quasi tutte le sue colleghe e convittrici; Don Antonio è naturalmente Vivaldi, il prete rosso che insegna violino alle ‘figlie di coro’ dal 1703 al 1740. È una delle lettere che compongono Stabat Mater, il nuovo libro di Tiziano Scarpa, costruito come un ‘romanzo di formazione’ che indaga la crescita umana e spirituale di una di quelle misteriosi e affascinanti figure che erano le ragazze degli Ospedali veneziani. In una curiosa Nota al termine del volume (curiosa in un opera di narrativa), Scarpa racconta il suo rapporto con la musica di Vivaldi, dei 200 CD del compositore che possiede, del suo essere venuto al mondo al reparto di maternità dell’Ospedale Civile di Venezia, che in quegli anni aveva sede nel palazzo in cui prima si trovava proprio l’Ospedale della Pietà. Quasi una predestinazione, vorrebbe dirci.

scarpaMa Stabat Mater non è una biografia romanzata di Vivaldi né un romanzo storico; nella trama gli appassionati vivaldiani troveranno parecchie inverosimiglianze e falsificazioni: Scarpa ne è ben consapevole e le ammette senza difficoltà nella Nota, domandando indulgenza agli estimatori e agli esperti. Anche se l’arco temporale non è chiarissimo, la lettura porta infatti a pensare che sia l’esecuzione dell’oratorio Juditha Triumphans sia quella dei concerti delle ‘Quattro stagioni’‘ fossero avvenute poco dopo l’arrivo di Don Antonio all’Ospedale, cosa senz’altro non vera. Altre inverosimiglianze o falsificazioni riguardano i riferimenti (in qualche modo velati) a singole opere e così via. “Mi sono preso la libertà di fantasticare a partire da una suggestione storica, senza badare troppo alla verosimiglianza documentaria”, chiarisce ancora nella Nota.

Forse, le inverosimiglianze più grandi non sono da ritrovare negli aspetti storici e documentari, quanto in alcuni accenti, in alcune immagini e in alcuni pensieri che Cecilia scrive nelle sue lettere. La scena in cui Vivaldi porta le allieve in gita a un mattatoio e costringe Cecilia a uccidere con le sue mani un agnello è fortemente inverosimile; più di ogni questione cronologica. Ma anche in questo Stabat Mater è una fantasticheria: ciò che gli importava indagare e raccontare era presumibilmente la psicologia di una ragazza dell’Ospedale, la sua angoscia, la sua reclusione reale ed esistenziale, il rapporto con l’esterno e con le istituzioni, prima di tutto quella famigliare rappresentata dallo sconosciuto legame materno; e soprattutto l’influenza che una musica teatrale, rappresentativa, libera e passionale come quella di Vivaldi può portare in un animo complesso e ricettivo come questo. E in ciò riesce pienamente: il libro si legge tutto d’un fiato e lascia un segno. È la voce interiore di Cecilia che riesce a non essere un esercizio di stile, che prende corpo e ci parla direttamente. È un libro che verrebbe voglia di definire vivaldiano anche nel suo colpire fulmineamente e felicemente, senza troppa preoccupazione di completezza, verosimiglianza e rotondità.

Ancora guerra e pace, ancora Gergiev

29 Ottobre 2008 § 0 commenti § permalink

Piccolo aggiornamento sull’uso politico della musica. Il 19 ottobre scorso, in un concerto dedicato ai sessant’anni dalla fondazione dello Stato d’Israele, Valeri Gergiev ha diretto a Gerusalemme la World Orchestra for Peace, l’orchestra fondata nel 1995 da Georg Solti che raccoglie 90 musicisti provenienti da 70 orchestre di tutto il mondo – una specie di dream team dedicato alla pace con alcuni tra i migliori strumentisti esistenti. Si possono leggere i dettagli della serata in quest’articolo del Jerusalem Post; alla fine dell’articolo si può leggere tuttavia anche un’inquietante notizia, la stessa che riporta Norman Lebrecht in uno dei suoi informatissimi pezzi: il concerto di Gerusalemme era sostanziosamente sponsorizzato da Arcadi Gaydamak, il controverso oligarca russo (o meglio anglo-canado-franco-israeliano!) che sta correndo per la carica di sindaco della città. Il problema è che Gaydamak è attualmente sotto processo a Parigi per il cosiddetto Angolagate, una brutta storia di armi fornite al governo angolano poco prima della recrudescenza della violentissima guerra civile che ha insanguinato il paese africano, portando centinaia di migliaia di vittime, in massima parte tra la popolazione civile: sotto processo non vuol dire colpevole, ma che un concerto dedicato alla pace sia sostenuto da un uomo d’affari sospettato di essere un trafficante d’armi (e di molte altre cose, v. biografia su wikipedia), in corsa per una delicatissima carica politica è un fatto che salta all’occhio. Come al solito non si può accusare nessuno di ipocrisia o, peggio ancora, di malafede, tanto meno un musicista come Gergiev, ma tutto questo non fa che sottolineare ancora una volta come se si lasciasse in pace la musica, e non la si mischiasse sempre e a tutti i costi con la pace, la guerra, la politica e la storia, tutti ne usciremmo sollevati e alleggeriti.

Brahms the Progressive

10 Ottobre 2008 § 0 commenti § permalink

Troppo lavoro, niente tempo per scrivere. Mi consolo con un bellissimo disegno di Matthew Guerrieri (da Soho the Dog):

brahmsprogressive

Canti di guerra, canti di pace

23 Agosto 2008 § 0 commenti § permalink

georgia

In un mondo in cui la musica torna ad essere uno strumento di comunicazione politica con sempre maggiore frequenza, non può stupire quanto è successo ieri l’altro nella capitale dell’Ossezia del Sud, Tskhinvali. Mentre ancora le diplomazie internazionali discutono sulla realtà del ritiro russo dal territorio osseto (o georgiano, a seconda di come si voglia leggere questa difficilissima crisi), Valeri Gergiev ha diretto l’Orchestra Filarmonica di San Pietroburgo davanti al municipio cittadino, gravemente danneggiato dal bombardamento georgiano. Ne scrive, sulla Repubblica di oggi, in terza pagina, l’inviato Renato Caprile, con un tono che fa trapelare un certo filoatlantismo; il pezzo si chiude con la traduzione del discorso tenuto da Gergiev prima del concerto, prima in russo e poi in inglese. Nella versione di Caprile, Gergiev dice una cosa che non viene comfermata da nessun altro dei numerosi giornali stranieri che hanno dedicato spazio alla notizia. “Sono qui per testimoniare tutto il mio dolore. Sono osseto come voi e come voi spero che cose del genere non si ripetano mai più. Ma tutto il mondo deve sapere di questa distruzione e dei nostri duemila morti”: questo è quello che avrebbe detto Gergiev (“Poi per fortuna la parola passa finalmente alla musica”, chiosa l’inviato di Repubblica). I duemila morti sono quelli che la diplomazia russa tenta di far accreditare come conseguenza dell’attacco georgiano; un dato tutto da provare, su cui molto si discute. Se è corretta la versione di Caprile, Gergiev avrebbe fatto un’affermazione tutt’altro che portatrice di pace.

Gergiev è nato a Vladivkavkaz, capitale dell’Ossezia del Nord (e dunque di quella parte del territorio osseto compreso nella Russia); anche sua moglie Natalya è osseta, e per la piccola e contestata repubblica indipendente caucasica, il frenetico direttore d’orchestra è il figlio più illustre, l’artista che riscatta agli occhi del mondo un intero popolo oppresso. Su queste basi non c’è da dubitare sulla sincerità di un gesto di inconsueta forza e di indubbio coraggio. Ma naturalmente c’è dell’altro.

gergiev_putin

Il concerto è stato presentato ai media come un solenne requiem per i morti del bombardamento georgiano; un grande concerto per la pace, trasmesso in diretta dalla televisione russa. Il legame fortissimo tra Gergiev e Putin è noto (“sono parenti” dice Caprile; in realtà Gergiev ha fatto da padrino alle due figlie di Putin, e questi ha ricambiato facendo altrettanto per uno dei figli di Gergiev). Un’amicizia saldissima, che ha come conseguenza gesti plateali di sostegno e appoggi meno vistosi ma altrettanto significativi. Quello che viene da chiedersi è quale sia il valore di un concerto per la pace in cui si afferma con forza il ruolo di salvatore della Russia di Putin, e in cui si accredita internazionalmente la versione russa, mentre ancora è dubbio se i combattimenti siano davvero cessati, quale sia il numero delle vittime, se vi sia stata o meno una qualche forma di “pulizia etnica”, e da quale parte sia stata condotta.

Un gesto per la pace che è in realtà uno straordinario gesto dalla valenza prettamente, violentemente politica. In una piazza interamente russa, la maggiore istituzione musicale russa suona due autori russi, Čaikovskij e Šostakovič, per ricordare le vittime russe. Tutto questo all’interno di quello che i georgiani considerano ancora proprio territorio, e dove comunque si suppone (e si spera) che ancora risieda una parte di comunità georgiana. Le composizioni scelte non sono meno cariche di significati politici: la Quinta di Čaikovskij e la Settima di Šostakovič, due sinfonie legate per motivi diversi a un evento centrale della storia russa, l’assedio nazista a Leningrado. L’equiparazione tra i due momenti storici è stata poi espressamente ribadita da Gergiev. Tskhinvali come Leningrado. Se non è politica questa…

Ciò che potrebbe stupire è la prudenza con cui gran parte dei media internazionali hanno trattato il concerto, prudenza che ricalca per molti versi quella tenuta nei confronti dell’intera crisi osseta. Tutta questa esaltazione del ruolo di salvatore della Russia, tutto questo sventolare di bandiere russe e di valori russi a sostegno di una minuscola repubblica che si proclama indipendente? Ma indipendente da chi, solo dalla Georgia o proprio da tutti? Ma quello che importa qui non è certo stabilire a chi spetti il ruolo di invasore e a chi quello di carnefice, quanto sottolineare come ancora una volta la musica sia diventata un potente mezzo di propaganda politica, in un processo nel quale alle note sono sovrapposti significati che finiscono per annegarle in uno spaventoso frastuono di cingolati. Anche se tutto fosse stato fatto con le migliori intenzioni.

AGGIUNTA DEL 14 NOVEMBRE 2008. Ecco il link al video di Youtube dove in inglese Gergiev parla effettivamente dei 2000 morti dell’attacco giorgiano.

Nella prima foto, il pubblico assiste al concerto di Gergiev a Tskhinvali. Foto di Joao Silva per The New York Times.