Un Orfeo a Mumbai

2 Febbraio 2009 § 0 commenti § permalink

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La vitalità di una forma artistica può essere giudicata anche attraverso la capacità di comunicare che i suoi codici simbolici conservano nel tempo. Curiosamente l’opera lirica, mille volte data per defunta e considerata alla stregua di una forma di assistenzialismo artistico persino da qualche ministro della cultura, continua a rivelarsi capace di comunicare concetti ed emozioni in una tale molteplicità di contesti da stupire anche il più appassionato dei suoi spettatori-ascoltatori.

In questi giorni è nei cinema italiani un bellissimo film del regista inglese Danny Boyle: The Millionaire (Slumdog Millionaire nella versione originale). È la storia di Jamal Malik, un ragazzo degli slum di Mumbai, e della sua lotta per sottrarsi al destino di miseria al quale sembra condannato per nascita e condizione; una lotta che è scandita dai tempi di due vicende parallele e intrecciate: la ricerca del riscatto economico attraverso la partecipazione al quiz televisivo Chi vuol esser milionario, e la disperata lotta per riavere Malika, la donna che ama fin da bambino, fin dal giorno in cui ha perso la madre, uccisa dal fanatismo religioso. Gli sta a fianco, alternativamente come spalla e antagonista, il fratello maggiore Salim, un ragazzo più violento e determinato, corresponsabile al tempo stesso del dolore e del successo di Jamal.

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È un film molto ben costruito, che gioca con diversi codici simbolici e diversi ritmi: il mondo della televisione con i suoi format universali e il suo pathos, il cinema commerciale indiano con le sue convenzioni, i suoi miti e i suoi ritmi, in una girandola di fili narrativi intrecciati e salti temporali, di rimandi e allusioni che lo rende a volte persino eccessivamente “ripieno”. Ma c’è una scena che colpisce la retina e rimane misteriosamente registrata nella memoria, con tutti i significati e i simboli che porta con sé.

Jamal, Salim e Malika, i due moschettieri più uno (come si definiscono per gioco), si trovano a un certo punto del film a dover scappare da una banda di criminali che sfruttano i bambini degli slum costringendoli a chiedere l’elemosina per le strade di Mumbai; i due fratelli riescono a salire su un treno in corsa, ma Malika viene catturata. Scesi avventurosamente dal treno in quella che si scoprirà essere la città di Agra, davanti agli occhi di Jamal e Selim si dispiega improvvisamente la visione del Taj Mahal; una bellezza assurda, si potrebbe dire “fuori scala”, vista la durezza delle scene precedenti. I due bambini cominciano a vivere di espedienti attorno alle attrazioni del luogo, derubando i turisti o rivendendo le scarpe lasciate dai visitatori all’ingresso del palazzo. In seguito a uno di questi furti, Jamal viene duramente picchiato, e mentre si sta lavando le ferite nell’acqua di un fiume, sente una musica strana venire dai giardini del palazzo: noi lo sappiamo, è il suono di un oboe accompagnato dagli archi; lui comincia comincia a seguirlo, e arriva in un luogo che dato il contesto sembra quasi surreale: nei giardini si sta rappresentando uno spettacolo d’opera all’aperto, fra le luci dei riflettori e le scenografie. Mentre i suoi amici si arrampicano sui tralicci delle gradinate per rubare le borse degli spettatori, lui si sofferma a guardare.

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Quella che si vede è una grande scena infernale, coperta di fuoco e solcata da rivoli incandescenti, con due persone al centro, un uomo e una donna: lei sembra morta, lui la abbraccia. Ma ciò che colpisce è quello che si sente: terminato il passaggio dell’oboe, l’uomo comincia a cantare, e le parole che intona sono di quelle che chi ama l’opera conosce molto bene: “Eurydice, Eurydice! Mortel silence! Vaine espérance! Quelle souffrance!”. È l’aria di Orfeo dal II atto dell’Orphée et Eurydice di Gluck, la famosa “J’ai perdu mon Eurydice”; l’oboe, anche se i titoli di coda non lo indicano, proviene da un’altra pagina meravigliosa, l’arioso “Quel nouveau ciel”.

Ecco la melodia dell’oboe:

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ed ecco l’aria; la parte che si sente nel film è da 2:16

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Due tra i passaggi più patetici e profondi dell’opera, incollati con molta astuzia. L’inquadratura passa dal primo piano del viso pesto e incantato di Jamal a un flashback sul momento della separazione da Malika, il treno che corre, lei immobile che si fa sempre più lontana, e poi ancora lei, più grande, molto tempo dopo, che sorride alla stazione, in quel gioco di rimandi temporali incrociati che è una delle cose più belle di questo film.

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Ecco che attraverso pochi secondi di musica, Boyle fornisce una chiave interpretativa molto forte, e lo fa utilizzando il codice simbolico del melodramma. Il desiderio, il dolore e l’ostinazione di Orfeo, che per riavere Euridice attraversa la palude infernale, sono quelli di Jamal; il suo canto, la sua prova di bravura, il gesto con cui commuove il mondo è la partecipazione a un quiz televisivo. Ma l’aria di Orfeo non è solo di dolore: contiene il senso di colpa. Orfeo piange perché la sua curiosità gli ha fatto perdere di nuovo Euridice; doveva tenere gli occhi chiusi, non doveva guardare, doveva fidarsi. Jamal è fuggito dai criminali che lo stavano per accecare; ha voluto sottrarsi a un destino segnato per sempre, ha voluto conoscere la vita, passare attraverso l’inferno del mondo per riconquistare davvero la libertà di Malika e la propria. Il significato che poche note musicali sanno portare è centrale per la comprensione del film, e curiosamente viene utilizzata un’opera del diciottesimo secolo; qualcosa di apparentemente lontanissimo dall’ambientazione della vicenda. Ma volendo guardare, c’è anche di più.

Che il codice dell’opera barocca non sia in realtà poi così lontano da quello del cinema di Bollywood, è cosa che più di un regista ci ha fatto scoprire da tempo (vedi per esempio il famoso Giulio Cesare di David McVicar). Ma anche senza abbandonarsi all’accanimento interpretativo, c’è un altro filo, chissà se del tutto casuale, che la presenza dell’aria di Gluck in quella scena porta con sé. Jamal fugge per evitare una mutilazione dettata da esigenze estetiche, pur se criminali: il canto di un bambino cieco attira dieci volte di più elemosine, dice uno dei personaggi. Gluck ha scritto quella melodia per Gaetano Guadagni, un castrato; la versione del film, tuttavia, è quella parigina per tenore… Chissà se Boyle ci ha pensato. La distanza tra le cose spesso è una questione di punti di vista; a volte sembra incredibile, ma l’opera sa ancora offrirne uno centrale e privilegiato rispetto a buona parte del nostro immaginario.


Le immagini sono tutte fotogrammi del film. I due brani musicali sono tratti dall’edizione dell’Orphée et Eurydice di C.W. Gluck utilizzata anche da Boyle per la colonna sonora. Si tratta dell’esecuzione diretta da Hans Rosbaud, con Leopold Simoneau, Suzanne Danco e l’Orchestre des Concerts Lamoureux (Philips 1956). La versione dell’opera è quella di Parigi del 1774, con Orfeo interpretato da un tenore (e Simoneau nella parte è una vera lezione di stile e fraseggio, anche se lontana anni luce dalle versioni filologiche di oggi).

Take Care of This House

20 Gennaio 2009 § 0 commenti § permalink

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1600 Pennsylvania Avenue” non è solo l’indirizzo della casa che da oggi avrà come nuovi inquilini Barak Obama e famiglia: è anche il titolo della meno conosciuta e rappresentata fra le opere di Leonard Bernstein. Non viene rappresentata perché non si può: la Bernstein Foundation, che raccoglie l’eredità del grande Lenny, lo proibisce; e lo proibisce perché così volle Leonard, quando lo spettacolo, un musical, l’8 maggio del 1976 chiuse i battenti dopo soltanto 7 recite, massacrato dalla critica e deriso dal pubblico. Durante le 13 “anteprime”, conscio del fatto che la debolezza fosse da addebitarsi soprattutto al libretto di Alan Jay Lerner, Bernstein chiamò al capezzale del suo spettacolo tutti i migliori amici, Jerome Robbins compreso, che furono concordi nel considerarlo irrecuperabile. Si potrebbe dire che 1600 Pennsylvania Avenue sia stata la più grande delusione della carriera di Bernstein; eppure fu anche l’opera per la quale, in assoluto, scrisse più musica: più di Candide, più di A Quiet Place. Se si vuole conoscere la storia di questo sfortunato musical, si può leggere il succinto ma preciso articolo di wikipedia.

Il libretto è un intrico di plot e subplot, il cui filo principale era definito dal curioso sottotitolo: “A musical about the problems of housekeeping”, dove la “cura della casa” (housekeeping), visto di quale casa si tratta, assume tutta una serie di significati politici e satirici. In questo filo narrativo principale sono rappresentati 12 presidenti degli Stati Uniti, da George Washington a Theodor Roosevelt (dunque dalla fine del Settecento ai primi del Novecento), ognuno con una propria particolare scena. C’è dunque il bozzetto parlamentare, con Washington e i delegati del Congresso che discutono su quale dovesse essere la capitale degli Stati Uniti, poi John Adams e consorte, quindi Jefferson che organizza un luculliano pranzo ufficiale, Madison che fugge e gli inglesi che tentano di dare fuoco alla Casa Bianca (1812), James Monroe e la moglie che non riescono a prendere sonno e discutono di schiavitù, e così via, fino all’augurio che Roosevelt porge al nuovo secolo. Dal punto di vista musicale, ogni situazione è un diverso pezzo di bravura: arie liriche, duetti, terzetti, concertati, cori, pezzi da ballo con finta musica ottocentesca, una Minstrel parade jazzistica, blues e via dicendo; si prenda per esempio lo strepitoso tour de force di un duetto per il soprano solo che si svolge durante il giuramento di Rutherford Hayes (1877), dove la stessa cantante alterna velocemente le emozioni della moglie del presidente uscente Grant e di quella dell’eletto Hayes, la prima che impazzisce di rabbia per il potere perduto e di invidia per la seconda, che invece conta i secondi che la separano dal diventare finalmente First Lady. Nonostante il fiasco, si tratta di un Berstein in gran forma.

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Accanto a questo primo filo narrativo, soprattutto nella prima parte, se ne intreccia un secondo che ritrae la vita dei due domestici neri della Casa Bianca, Lud e Seena, dalla gioventù alla vecchiaia, e attraverso la loro storia (i due si innamorano, si sposano, si confrontano con i diversi presidenti) il problema della schiavitù e poi dei diritti dei neri. A tutto questo si aggiunge un terzo filo narrativo, molto di moda all’epoca e oggi piuttosto demodè: le discussioni della compagnia di attori e cantanti che sta provando l’opera, e che ogni tanto si ferma per analizzare le questioni politiche e sociali collegate. Insomma, una trama forse inutilmente intricata per un totale di più di quattro ore di spettacolo. Troppo sia per il pubblico sia per la critica.

Dopo la morte di Bernstein, pur rimanendo il veto alla rappresentazione (credo che un solo allestimento, nel 1992, superò questa censura), dallo spettacolo fu ricavata una Cantata di 80 minuti circa, che cuciva insieme i numeri musicali più belli, eliminando totalmente il subplot di “teatro nel teatro”: A White House Cantata. Nel 1998 Kent Nagano la incise per la Deutsche Grammophon, con una compagnia di canto (Thomas Hampson, June Anderson, Barbara Hendricks ecc.) che spostava decisamente in ambito lirico il sound e l’impostazione generale dell’opera, mantenendo tuttavia l’orchestrazione originale del musical. È solo da quell’incisione che oggi ci si può fare un’idea di quali perle contenesse 1600 Pennsylvania Avenue, e di quanto varrebbe la pena di riscoprirla. Alcuni numeri della partitura originale furono trapiantati da Bernstein in altri lavori, altri riuscirono a sopravvivere nonostante il veto.

Fra questi ultimi, la bellissima aria di Abigail Adams, la moglie del secondo presidente, che rivolgendosi al domestico ancora bambino gli raccomanda di prendersi cura della Casa anche quando loro non ci saranno più: “Care for this house | It’s the hope of us all”. Un song sofisticato, pieno di quel senso di felicità e facilità inventiva che è la grandezza di Bernstein, ma che lo condannerà per sempre agli occhi della critica più bacchettona.

Melodia, armonia, ritmo e retorica: difficile pensare a qualcosa di più americano di “Take Care of This House”: Frederica Von Stade, sotto la direzione di Bernstein, la cantò nel concerto dell’“Inauguration Day” di Jimmy Carter, 32 anni fa esatti esatti. Oggi il marketing del sogno di Obama ha richiesto ben altro concerto, ma per il grande amore che tutti (spero) portiamo al grande Lenny, può essere di ottimo auspicio rinnovare oggi l’invito di Abigail, con tutto il cuore: take care of this house, Barak. Dato l’inquilino precedente, ne ha molto bisogno.

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Take Care of This House”, June Anderson (sop.), Victor Acquah (v. bianca), da L. Bernstein, A White House Cantata, London Symphony Orchestra, London Voices, dir. Kent Nagano. Deutsche Grammophon 463 448–2.

Foto in alto: Bernstein a metà degli anni ’70, © Bernice Perry.

A Mendelssohn tutto è vietato?

13 Gennaio 2009 § 0 commenti § permalink

mendelssohnNon comincia in maniera festosa il bicentenario della nascita di Mendelssohn. In un articolo di Jessica Duchen pubblicato ieri sull’«Independent» di Londra, si racconta infatti di un mistero legato allo strettissimo rapporto affettivo che legò il compositore al leggendario soprano Jenny Lind, che secondo un importante musicologo, Curtis Price, potrebbe gettare una luce fosca sulle circostanze della morte di Mendelssohn.

jenny_lindIl mistero avrebbe origine da un “affidavit”, una dichiarazione sottoscritta da Otto Goldschmidt, allievo di Mendelssohn e marito di Jenny Lind, depositato nell’archivio della Mendelssohn Scholarship Foundation (oggi ospitato dalla Royal Academy of Music di Londra), attraverso il quale nel 1896 dichiarava di avere distrutto una lettera del compositore alla cantante; nella lettera, datata 1847, Mendelssohn confessava il suo violento amore alla donna, le chiedeva di fuggire insieme a lui in America e minacciava il suicidio in caso di rifiuto. Scrive la Duchen: “Lind, come si può immaginare, rifiutò. Pochi mesi dopo il compositore era morto”.

Il documento di Goldschmidt avrebbe dovuto rimanere segreto per 100 anni, e dunque fino al 1996, ma per qualche strano motivo continuerebbe a essere tenuto nascosto, nonostante le insistenze di diversi studiosi, tra cui l’autrice dell’articolo. Nel 1847, l’anno della misteriosa lettera e della morte di Mendelssohn, Jenny Lind era ancora nubile (si sarebbe sposata cinque anni dopo), ma Felix era legato da dieci anni a Cécile Jeanrenaud in quello che è sempre stato descritto dall’agiografia romantica come un matrimonio straordinariamente felice; dall’unione erano già nati cinque figli.

Jenny Lind è una figura quasi leggendaria della storia dell’opera. L’“usignolo svedese”, come era soprannominata, oltre a una capacità vocale che le fruttò una precoce fama in tutto il mondo (celebre è rimasto il suo tour americano organizzato da P.T. Barnum, che le versò una cifra colossale per oltre 150 concerti) doveva essere dotata di un discreto fascino, se fra i sui grandi ammiratori si ricordano anche Hans Christian Andersen e Frederic Chopin. Il primo ruolo a cui è legata la sua carriera è quello di Agathe nel Freischütz di Weber; nel 1847 sarà Amalia alla prima mondiale dei Masnadieri di Verdi a Londra. Per lei Mendelssohn sognava di scrivere un’opera ispirata alla Lorelei, e se non riuscì mai a realizzare questo desiderio, per la sua voce scrisse nel 1846 la parte di soprano nel meraviglioso oratorio Elias. In fondo, che sotto il sublime religioso ci sia un fondamento erotico non è certo una cosa nuova; anzi, è per molti versi rassicurante. Per un anno, dopo la morte del compositore, Jenny non riuscì a riavvicinarsi all’oratorio; lo fece di nuovo nel 1848, raccogliendo più di 1000 sterline con cui creò proprio la Mendelssohn Scholarship Foundation, una fondazione votata alla protezione dei giovani compositori e musicisti. Quella stessa che oggi non sembra voler rivelare la verità sul rapporto tra lei e il compositore.

Ma perché tanto mistero? Che cosa c’è di scandaloso in questa storia? Assolutamente nulla, se si osserva la cosa con occhio disincantato e moderno. Che Mendelssohn non fosse quella figura di romantico e in fondo felice sognatore che lo schmalz Biedermeier tramanda si sapeva da tempo; i danni che questa caricatura borghese ha fatto alle ricezione della sua musica sono gravi, forse pari all’odio che il nazismo gli dimostrò per motivi razziali. Nell’articolo della Duchen, il violoncellista Steven Isserlis – che scopriamo essere lontano parente di Mendelssohn – invita all’ascolto del Quartetto in fa minore (op. 80), per rendersi conto di quanto potesse essere tormentata la sua musica (la sua anima?) sotto la superficie. Ma per qualche oscura ragione, a duecento anni dalla nascita, non si vuole che su questo compositore si getti uno sguardo diretto e limpido. Non comincia in maniera festosa, dunque, il suo anniversario; ma non è detto che tutto il male venga per nuocere.

* * *

Questa è forse la più bella delle arie che il soprano canta nell’Elias: “Höre, Israel!”, con cui si apre la seconda parte dell’oratorio. Il soprano è Elly Ameling, e Wolgang Sawallish dirige l’orchestra della Gewandhaus di Lipsia, nell’incisione Philips del 1968.

In altro a sinistra, Jenny Lind nel 1846, ritratta da Eduard Magnus (Berlino, Staatliche Museen zu Berlin, Nationalgalerie); a destra, Mendelssohn dieci anni prima nel ritratto di Theodor Hildebrandt (Berlino, Deutsches Historisches Museum).

Il tiro mancino del pianista

10 Gennaio 2009 § 0 commenti § permalink

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Per un musicista (e più in particolare per un pianista) è un vantaggio essere mancini? Si tratta di un tema vecchissimo, sul quale ogni insegnante ha la propria teoria. Il mancino, come ogni portatore di una qualche diversità dalla maggioranza, ha sempre destato sospetti: in tutte le lingue che io conosca esistono vocaboli che mettono in relazione ciò che è “sinistro” con l’infido, il maligno (che non a caso zoppica, e naturalmente dal piede sinistro). Ci sono insegnanti che con incredibile perseveranza e crudeltà hanno costretto gli allievi mancini a scrivere con la destra; in campo musicale, esistono strumenti a corda per mancini (con le corde, e dunque le relative strutture di sostegno, invertite), e ultimamente c’è anche chi costruisce pianoforti per mancini, anche se la cosa può sembrare totalmente folle.

Ma naturalmente c’è anche l’altra versione. E meno male. Il mancino è portatore di una diversità che, come ogni diversità, può costituire uno straordinario vantaggio non solo per lui, ma per la società intera. D’altro canto non si tratta certamente di una caratteristica rara: si stima che il dieci per cento della popolazione mondiale sia mancino. Ma tornando all’interrogativo iniziale, per un pianista è un vantaggio oppure no? Un piccolo aiuto può venirci da un curioso articolo di Pierre Ruhe pubblicato dall’«Atlanta Journal-Constitution», il principale quotidiano di Atlanta (ringrazio Bart Collins per la segnalazione). Curioso perché non sembra essere stato suscitato dalla comparsa di un nuovo studio o da una dichiarazione di qualche scienziato, ma probabilmente solo dal desiderio di presentare il direttore principale ospite della Atlanta Symphony Orchestra, Donald Runnicles, da un diverso punto di vista; ciò nonostante l’articolo contiene molte informazioni interessanti.

Come molti destri, la mia personale opinione, per esempio, si basava sul luogo comune che essendo la mano destra, tradizionalmente, quella dell’agilità, lo studio del pianoforte potesse rivelarsi particolarmente impegnativo per un mancino; è probabile che l’argomento comporti (inconsciamente) un testo sottotraccia: la mano destra è quella dell’agilità perché la musica è stata composta da musicisti destri per interpreti destri. La sorpresa sta invece nello scoprire che non solo molti grandissimi pianisti erano o sono mancini (Vladimir Horowitz, Arthur Rubinstein, Glenn Gould, Daniel Barenboim, Radu Lupu, Leif Ove Andsnes), ma anche moltissimi grandi compositori; la lista comprende C.P.E. Bach, Beethoven, Schumann, Brahms, Rachmaninoff e Scriabin. E allora, come la mettiamo?

Ma l’articolo si spinge oltre, e afferma che l’essere mancino per un pianista è un vantaggio, come spiega Russel Young, direttore del dipartimento di opera e teatro musicale della Kennesaw State University:

[Se sei mancino] leggi la musica stampata sulla pagina dal basso verso l’alto. Una volta che hai compreso la linea di basso, ne ricavi un’idea più solida della struttura armonica, dato che la mano destra il più delle volte è occupata dal libero andamento melodico.

Non poteva mancare l’opinione dello scienziato. Samuel Wang, docente di Neuroscienze a Princeton, e coautore di Il tuo cervello. Istruzioni per l’uso e la manutenzione (Mondadori 2008) – il pazzo titolo dell’edizione americana era Welcome to Your Brain: Why You Lose Your Car Keys But Never Forget How to Drive and Other Puzzles of Everyday Life – ci spiega che la prevalenza (addirittura!) dei mancini tra i pianisti di massimo livello è un fatto scientificamente prevedibile, poiché suonare a quel livello “è estremamente impegnativo, e qualsiasi vantaggio, per quanto piccolo, si mette subito in forte evidenza”; e prosegue:

I pianisti devono coordinare l’attività di entrambi gli emisferi del cervello, dal momento che ciascuno di essi è responsabile per il movimento di una separata mano. [Nel campo del linguaggio] un mancino su sette coordina il linguaggio attraverso entrambi gli emisferi, mentre tra i destri il rapporto è di uno a venti. Questo comporta il vantaggio di avere il doppio di “spazio disponibile” cerebrale per governare il linguaggio, e può spiegare la quantità di mancini verbalmente dotati – vengono in mente Clinton e Obama.

Lasciando da parte quest’ultima considerazione (poco prima ci era stato spiegato con fierezza che sei degli ultimi dodici presidenti degli Stati Uniti erano mancini), a seguire quest’articolo sembrerebbe dunque che la risposta alla domanda di partenza sia affermativa. Certo, mi piacerebbe sentire quanti maestri di pianoforte sono d’accordo, però l’argomento è interessante, perché al di là del vantaggio tecnico, si allude a una diversa “sensibilità” nei confronti del suono e della struttura della musica, cosa che si riflette nella scrittura e nell’interpretazione.

In ogni caso, l’articolo ci avverte che Runnicles, quando dirige la Atlanta Symphony, rovescia specularmente la disposizione dell’orchestra: “per sentire i bassi nella mia mano dominante, in analogia con quanto avviene al pianoforte”.

Foto in alto: Beach Hand, © di Wzrdry

Le parole di Barenboim e gli alberi di Abbado

5 Gennaio 2009 § 2 commenti § permalink

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Venerdì 2 gennaio, a pagina 5 della «Repubblica» è apparso un breve articolo in cui Daniel Barenboim commenta la drammatica situazione della striscia di Gaza; non l’ho trovato sul sito del giornale, e così lo ricopio io stesso. È un intervento semplice e diretto, che affronta a viso aperto la tremenda difficoltà del conflitto (un “conflitto umano” lo chiama, con quella che mi sembra una bellissima espressione), indicando senza abbandonarsi al luogo comune pacifista l’esigenza inevitabile di una riapertura del dialogo. Barenboim è un musicista, non un politologo, ma scrive e agisce dimostrando la convinzione che nulla di ciò che accade ci possa essere estraneo, ben sapendo che la posizione privilegiata offertagli dallo straordinario livello artistico del suo lavoro può anche essere utilizzata per intervenire nelle grandi emergenze del momento. Ecco il testo:

Per il nuovo anno ho tre desideri. Il primo è che il governo israeliano si renda conto, una volta per tutte, che il conflitto in Medio Oriente non può essere risolto con mezzi militari. Il secondo, è che Hamas si renda conto che non è suo interesse servirsi della violenza e che Israele è qui per rimanere. Il terzo è che il mondo riconosca che questo è un conflitto diverso da tutti gli altri conflitti della storia. È un conflitto complesso e delicato come nessun altro; è un conflitto umano tra due popoli, entrambi profondamente convinti del loro diritto di vivere sul medesimo piccolo lembo di terra. Ecco perché né la diplomazia né l’azione militare possono risolverlo. Gli sviluppi degli ultimi giorni mi preoccupano terribilmente per molte ragioni, sia di natura politica che umana. Sebbene sia di per sé evidente che Israele ha il diritto di difendersi, l’implacabile e brutale bombardamento di Gaza da parte dell’esercito israeliano ha fatto nascere nella mia mente alcuni gravi interrogativi. Il primo è se il governo israeliano abbia il diritto di ritenere tutti i palestinesi colpevoli delle azioni di Hamas. Si può considerare l’intera popolazione di Gaza responsabile dei peccati di un’organizzazione terroristica? E poi, se l’uccisione di civili è inevitabile, qual è lo scopo di questi bombardamenti? Se l’obiettivo delle operazioni è quello di distruggere Hamas, allora la domanda più importante da porsi è se si tratta di un obiettivo raggiungibile. Se non lo è, l’intero attacco è non soltanto crudele, barbaro e riprovevole, ma anche insensato. Se invece fosse davvero possibile distruggere Hamas attraverso le operazioni militari, quale reazione Israele prevede che potrà verificarsi a Gaza una volta conseguito tale obiettivo? Un milione e mezzo di cittadini di Gaza non si inginocchieranno improvvisamente di fronte alla potenza dell’esercito israeliano. La recente storia di Israele mi porta a ritenere che se Hamas venisse distrutta, quasi certamente il suo posto verrebbe preso da un’altra organizzazione, un’organizzazione ancora più estremista, violenta e carica di odio nei confronti di Israele di quanto non sia oggi Hamas. Israele non può permettersi una sconfitta militare per paura di scomparire dalla carta geografica; tuttavia la storia ha dimostrato che tutte le vittorie militari hanno sempre lasciato Israele in una posizione politica più debole a causa dell’affiorare di nuovi gruppi estremisti. Non sottovaluto la difficoltà delle decisioni che il governo deve prendere ogni giorno, né l’importanza della sicurezza. Ciò nonostante, resto dell’idea che l’unico piano di sicurezza a lungo termine veramente attuabile sia quello di conquistare l’accettazione di tutti i nostri vicini. Mi auguro che il 2009 segni il recupero della famosa intelligenza da sempre attribuita agli ebrei. Mi auguro che coloro che detengono le chiavi del potere ritrovino la saggezza di Re Salomone e la impieghino per capire che palestinesi ed israeliani hanno gli stessi diritti umani. La violenza palestinese tormenta gli israeliani e non serve alla causa della Palestina; le ritorsioni dell’esercito israeliano sono inumane, immorali e non garantiscono la sicurezza di Israele. Come ho già detto, i destini dei due popoli sono inestricabilmente intrecciati, e li obbligano a vivere l’uno accanto all’altro. Essi devono decidere se vogliono che ciò sia una benedizione o una condanna.

Una posizione del genere, nella quale l’artista dimostra di essere umanamente radicato nella storia del presente, con competenze e convinzioni serie e fondate e il desiderio di discuterle pubblicamente, è un’eccezione. Gli artisti, anche quelli di ottimo livello intellettuale, generalmente sfuggono a qualsiasi discussione che li possa costringere a prendere una posizione, anche quando passano per “impegnati”.

Pochi giorni prima mi era capitato di leggere l’intervista di Giuseppina Manin a Claudio Abbado, pubblicata sul «Corriere della Sera» del 30 dicembre. Certo, il contesto è molto diverso; certo, il tono è volutamente più leggero; certo, si tratta di un’intervista e non di un articolo. Ma non è la prima volta che un musicista come Abbado, a cui la vita ha dato molte più possibilità di vedere, di incontrare e di conoscere che a gran parte di noi, esprime le sue opinioni sul presente con questa distanza aristocratica. Personalmente la differenza mi ha fatto una certa impressione, ma ognuno faccia le sue valutazioni. È una questione di tono, di rapporto con il mondo e con il presente storico. Una “questione umana” verrebbe da dire, parafrasando Barenboim.

Stravinsky e il giornalismo partecipativo

2 Gennaio 2009 § 0 commenti § permalink

Questo brevissimo spezzone di film muto è stato girato nel dicembre 1928 negli studi della Columbia al Théâtre des Champs-Elysées, a Parigi, e mostra Igor Stravinsky mentre registra L’uccello di fuoco con l’Orchestre des Concerts Straram. È la prima delle tre registrazioni che Stravinsky fece del balletto, composto diciotto anni prima; ha 46 anni, ed è nel pieno del suo “periodo neoclassico” (è l’anno dell’Apollon musagète). Il filmato è molto interessante, perché mostra uno Stravinsky direttore ben più vigoroso di quello, più noto, delle registrazioni americane. La fonte che mi ha permesso di trovare questo filmato è un’interessantissima serie di 3 articoli di Scott Foglesong dedicata all’attività di Stravinsky come direttore, e in particolare alle sue registrazioni discografiche (i tre pezzi trattano rispettivamente: dagli inizi al 1938, le registrazioni mono degli anni 1950–60 e le registrazioni Columbia dei tardi anni ’50 e ’60).

Ma accanto all’interesse intrinseco del filmato e degli articoli, ben scritti e documentati, c’è un altro aspetto che mi preme sottolineare. Scott Foglesong scrive per il sito examiner.com, che rappresenta un esperimento molto interessante per quanto attiene all’informazione del futuro. Nato come versione web dell’Examiner, una rete di giornali locali gratuiti di proprietà del ricchissimo Philip Anschutz, il sito è diventato un esperimento di “giornalismo partecipativo” (citizen journalism); la storia di examiner.com la si può leggere riassunta in questo articolo. Foglesong, docente al conservatorio di San Francisco e a Berkeley, fa parte delle centinaia di “examiners” scelti dal sito (su autocandidatura) dapprima per raccontare la realtà locale e superlocale (si arriva fino ai problemi di quartiere), poi con uno sguardo sempre più diretto all’informazione generale, senza trascurare quella culturale. Oggi il sito ha 1,2 milioni di contatti al mese, e continua a crescere; i contenuti possono sembrare organizzati un po’ caoticamente, ma si sa che gli utenti di internet sono velocissimi a crearsi delle routine. Quello che viene spesso presentato come un remoto futuro, sembra dunque essere già fra di noi, e la citata voce di wikipedia presenta un quadro abbastanza impressionante. Lunga vita alla gloriosa informazione dei grandi media, ma sarebbe bene che cominciassero ad attrezzarsi…

Un Salieri per Giovanni Allevi

28 Dicembre 2008 § 13 commenti § permalink

salieriAllevi ha risposto all’intervista in cui Ughi si diceva offeso dal concerto di Natale al Senato (vedi post del 24 dicembre). Come ha risposto? Con una Lettera Aperta. In fondo quello che riguarda lui riguarda l’Arte, e dunque due righe avvelenate nella pagina della Posta gli sarebbero sembrate da morti di fame. E cosa scrive, in questa Lettera Aperta? Fa l’Allevi. Una miscela di furberia, giovanilismo piagnone, autocommiserazione che poi diventa autoesaltazione per concludersi nell’autotrionfalismo più scatenato (spacciato per “visionarietà”).

ughiDunque comincia con una favoletta, quella del giovane compositore che va a un concerto della grande star Uto Ughi e ne resta tanto colpito da andare nel suo camerino a chiedergli un autografo: è l’unico autografo che Allevi abbia mai chiesto a un artista, ed è successo 10 anni fa. Che strana idea, quella diarrivare a 28 anni senza chiedere mai un autografo a nessuno, e poi improvvisamente chiederlo a Uto Ughi. Boh. In ogni caso, ottenuto il prezioso feticcio, Allevi torna nel suo monolocale; perché ci dà la metratura di casa sua? Perché ci vuole dire che è povero, è fuori dai giochi, non conosce nessuno del mondo rutilante dello spettacolo:

Io non avevo amicizie influenti, a stento arrivavo alla fine del mese, affrontavo grandi sacrifici per diplomarmi in Composizione e il biglietto del concerto l’avevo pagato. Ma ora avevo l’autografo di uno dei più valenti violinisti del mondo: lei, Maestro Ughi.

Ecco, praticamente la piccola fiammiferaia. Ma la fase dell’autocommiserazione dura poco. Mentre la “casta” difendeva i suoi onori e le sue ricchezze, Allevi studiava duramente, confortato dalla Fenomenologia di Hegel (!). Ed ecco che, all’improvviso arriva l’illuminazione. Allevi capisce la propria missione:

Perché costringere il pubblico del nostro tempo a rapportarsi solo a capolavori concepiti secoli fa, e perdere così l’occasione di creare una musica nuova, verace espressione dei nostri giorni, che sia una rigorosa evoluzione della tradizione classica europea? La musica cosiddetta «contemporanea», atonale e dodecafonica, in ogni caso non è più tale, perché espressione delle lacerazioni che agitavano l’Europa in tempi ormai lontani. Ecco allora il mio progetto visionario. È necessario uno sforzo creativo a monte, piuttosto che insistere solo sull’educazione musicale, gettando le basi di una nuova musica colta contemporanea, che recuperi il contatto profondo con la gente. Ho provato a farlo, con le mie partiture e i miei scritti. È stato necessario.

Il giochino è abbastanza semplice: si dice che la musica contemporanea è quella delle lacerazioni del passato, quella brutta e difficile, insomma quella derisa da Alberto Sordi nelle Vacanze intelligenti. E quindi il suo tentativo diventa quello di ricucire lo strappo, di ridare al presente una musica del presente. Ora, che il suo problema sia stato posto da gran parte dei compositori degli ultimi trent’anni (e più) lui non lo dice. Lui legge Hegel e capisce cosa deve fare; che ci sia stato un minimalismo americano, e poi un postminimalismo, che in Italia sia stata scritta della musica definita neoromantica, che mezzo mondo non navighi più nella scia di Boulez, Allevi fa finta di non saperlo, e in ogni caso non lo dice. Ed ecco che l’accusa di sfruttare l’ignoranza della gente diventa piuttosto ragionevole. Ma l’ardito innovatore si spinge più in là:

Da amante di Hegel, quindi, sapevo benissimo che l’ondata di novità avrebbe mandato in crisi il vecchio sistema e che i sacerdoti della casta, con i loro adepti, non potendo riconoscere su di me alcuna paternità, avrebbero messo in atto una criminale quanto spietata opera di «crocifissione di Allevi».

Ora, che Allevi sia stato addirittura “crocefisso” dai sacerdoti della casta è cosa alquanto difficile da sostenere: è coccolato e invitato da tutte le maggiori istituzioni musicali, è presentato a tutte le ore su tutti i canali televisivi e radiofonici come il nuovo Mozart e, con tutto il rispetto, non mi sembra che Ughi abbia la statura per impersonare il Salieri del film di Forman (e del dramma di Schaffer). Ma la sua rivoluzione parte dal basso, vuole dirci:

Non c’è alcuna macchinazione, tutto è assolutamente limpido e puro: le persone spontaneamente hanno scelto di seguirmi. Ma bisogna smettere di ritenere ignorante la gente «comune». Il pubblico cui si rivolgeva Mozart nel XVIII secolo era forse più colto del nostro?

Eppure era chiaro che nessuno si fosse mai detto offeso dal successo di Allevi. Ognuno ha il diritto di scrivere e di ascoltare quello che preferisce. Il problema nasce quando qualcuno ti dice che ciò che sta facendo è l’eccellenza di un certo ambito, ma qualsiasi considerazione stilistica, estetica e storica che abbia un minimo di costrutto indica platealmente il contrario. E qui, curiosamente, Allevi usa un argomento abbastanza inconsueto: invece di sostenere che non ha senso chiedersi se la sua musica sia “classica” o meno – si consideri che tutto nasce da un concerto al Senato spacciato per concerto classico di altissimo livello – usando la vecchia e alquanto usurata argomentazione della scomparsa delle distinzioni fra i generi musicali, dell’esigenza della contaminazione, del meticciaggio ecc., invece di fare tutto questo, lui rivendica la purezza razziale della sua musica:

È una musica colta che non può prescindere dalla partitura scritta e che rifiuta qualunque contaminazione, con le parole, con le immagini, con strumenti musicali e forme che non siano propri della tradizione classica. […] La mia è una musica classica, perché utilizza il linguaggio colto, la cui padronanza è frutto di anni di studio accademico. […] La mia non è una musica pop, perché non contempla alcun cantante, alcuna chitarra elettrica e batteria e non usa la tradizione orale, o una scrittura semplificata come mezzo di propagazione…

Insomma non è uno scherzo: Allevi vuole proprio affermare che la sua è la “musica classica” del presente e del futuro, e che l’unico motivo per cui una persona come Ughi – che con la musica contemporanea “lacerata” e dissonante ha lo stesso legame che potrebbe avere con l’heavy metal – lo rifiuta è perché Ughi è un Gran Sacerdote della casta passatista. Abbastanza incredibile.

Ma il vero capolavoro è la chiusa, dove sotto i lineamenti dell’artista del futuro si riaffacciano quelli, imbronciati, della piccola fiammiferaia: “Quel suo autografo che ho sempre conservato gelosamente, dopo tanti anni, per me ora non conta più niente”. Addio, Bruto Ughi!

La bella favola del vecchio violinista

27 Dicembre 2008 § 0 commenti § permalink

Una bella favola romantica, un po’ melensa ma comunque commovente; proprio come dev’essere una favola. Si intitola The Violin, ed è un cortometraggio del 1974 di George Pastic da una storia sua e di George Welsh (nel 1977 ne fu ricavato anche un libro). Nel 1974 fu candidata all’Oscar. Il filmato è stato reso disponibile in rete da Michael Monroe sul suo blog MMmusing (grazie!). Il vecchio violinista è il canadese Maurice Solway, che ha anche curato la colonna sonora; non uno qualunque, ma un allievo di Eugène Ysaÿe. Certo, lo si può buttare come una roba sdolcinata e ingenua, ma assicuro che, pur nel linguaggio delle favole, in chi da piccolo ha studiato il violino (ma forse qualsiasi strumento), questo film qualche richiamo sentimentale e persino profondo lo suscita; riguarda il fascino dello strumento, il potere ipnotico della musica, il desiderio di emulazione e la figura dell’insegnante. Ma ognuno lo veda come gli pare.

Un allevamento al Senato

24 Dicembre 2008 § 1 commento § permalink

allevi

Alla fine di un precedente post, in cui si parlava della questione Kaplan-NY Philharmonic, facevo cenno all’impressione che mi aveva fatto vedere Giovanni Allevi snocciolare le sue banalità sonore al Senato, e vedere mezzo Parlamento italiano acclamarlo in piedi come fosse Stravinskij redivivo. La sensazione che avevo sentito dentro di me, e avevo subito cercato di comunicare agli amici, era stata di offesa: la sensazione quasi fisica di uno schiaffo. Si passa la vita a capire che cosa è buono e che cosa non lo è, a distinuere gli amici veri da quelli meno, a imparare a scegliere. Che Giovanni Allevi possa vendere migliaia/milioni/miliardi di dischi non è una cosa che mi offende: se li hanno venduti le Spice Girls, perché Allevi non dovrebbe? Perché la sua melodia allude alla tradizione classica? È la prova che quando il marketing coglie un’onda, la sa portare fino a riva fregandosene di qualsiasi diga o distinzione: negli anni abbiamo visto le case discografiche cavalcare i più disparati generi, scherzare con la politica, la cultura, la fede. Se si tratta di fare soldi, tutto può funzionare, e nessun cavallo è davvero zoppo: facciamo tornare il crooner alla Bublè, il cantante latino impegnato alla Manu Chao, il tenore alla Bocelli, il violinista alla Kennedy, il coro di monaci dell’abbazia cistercense. Potrebbero farcela anche con un quartetto di tube wagneriane, se solo trovassero il mix accattivante.

Ma a costo di farlo io, il vecchio trombone, devo dire che per me un concerto al Senato ha un valore diverso. Non è una sala che si affitta per i party aziendali; non è un teatro che si subappalta alle agenzie; non è uno studio televisivo, anche se c’è chi lavora indefessamente per farcelo diventare. Insomma, vedere quella che dovrebbe essere l’élite culturale e politica del paese (si pensi alla figura del senatore a vita), spellarsi le mani e inchinarsi davanti a un artista che ha fatto della faciloneria e della superficie la propria fortuna, mi ha fatto sentire offeso nel profondo. Giuro, proprio nel profondo.

Ma se oggi ci torno su, è perché per una volta i miei sentimenti hanno trovato espressione quasi letterale nelle parole di un artista verso il quale nutro sentimenti contrastanti, ma che sicuramente rappresenta qualcosa di infinitamente distante dal giovanissimo musicista-filosofo-poeta-creativo-a-tutto-tondo: Uto Ughi.

La bella intervista di Sandro Cappelletto sulla Stampa di oggi, riporta frasi intere di Ughi che sottoscriverei senza cambiare una virgola. Lo sconcerto sui consulenti musicali del Senato, il negare la parentela con la tradizione classica, la sensazione di un inquinamento della verità e del gusto, del furbo cavalcare un equivoco culturale. Solo quando parla del “trionfo del relativismo”, giusto perché so dove si va poi a parare, richiamerei un più semplice “qualunquismo” o una più universale “superficialità”. Non sarà certo un caso, se molti quotidiani nella versione on-line hanno ripreso un lancio d’agenzia che descriveva l’omaggio di Allevi, durante il concerto, al grande compositore Giovanni Puccini, di cui si celebra quest’anno il 150° anniversario. Per non parlare poi della presentatrice, Milly Carlucci, e del suo tono sfrontatamente, fastidiosamente triofalistico e genuflesso nei confronti del presidente del Senato e della maggioranza che lo ha insediato; tutto torna, se si pensa che Milly è la sorella dell’ineffabile Gabriella, la massima esperta di spettacolo che il governo del Cavaliere abbia saputo esprimere.

In quanto alla frase di Allevi, raggelante per ignoranza e presunzione, che Cappelletto riporta in chiusura dell’articolo (“La mia musica avrà sulla musica classica lo stesso impatto che l’Islam sta avendo sulla civiltà occidentale”), la accosterei alla fantasmagorica teoria estetica espressa altrove dal piccolo Leonardo: “stiamo tornando nel Rinascimento italiano, dove l’artista deve essere un po’ filosofo, un po’ inventore, un po’ folle, deve uscire dalla torre d’avorio e avvicinarsi al sentire comune”. Ma che Rinascimento ha studiato, Allevi?

Va bene che il Senato di questa legislatura non è certo un’Accademia platonica, ma porca misera, un po’ meno di acquiescenza bovina avrebbe fatto bene a tutti. Specialmente quando quelle manine che si spellano ad applaudire, sono poi le stesse che schiacciano il pulsantino del “sì” per votare dei pesanti tagli all’inutile cultura passatista. Una promessa concreta: più Allevi per tutti.

Puccini!

23 Dicembre 2008 § 0 commenti § permalink

puccini2

Quanti anniversari, quante cose da festeggiare e da ricordare in quest’anno tanto difficile! Forse festeggiare i compleanni fa invecchiare i ricordi: si fa un gesto di generico tributo e poi ci si butta tutto alle spalle, e per un po’ non ci si pensa più. O forse gli anniversari sono tornati di gran moda per via della disperata fame di ricavi delle aziende: quante edizioni complete di Messiaen sono uscite quest’anno? Almeno quattro, credo. Domani saranno ancora sugli scaffali? Fino a ieri Messiaen era un autore difficile (e per qualcuno anche peggio)…

Insomma, è tutto vero. I ricordi bisogna cercare di tenerseli stretti tutto l’anno. Ma Puccini…

No, Puccini bisogna proprio festeggiarlo. Sarebbe un’offesa troppo grave. E devo dire che sapere che oggi sarebbe il suo 150° compleanno mi fa una certa impressione. 150 anni. Un soffio. Mio nonno potrebbe averlo conosciuto. Io stesso ho conosciuto chi lo ha conosciuto. Qualcuno si ricorderà il baffuto custode della villa di Torre del Lago, che raccontava di come il Maestro lo tenesse in braccio quando era piccolo. Assomigliava moltissimo a Puccini, la cosa alimentava qualche pettegolezzo tra i visitatori, e questo chiaramente lo inorgogliva.

Ma l’omaggio, per essere tale, deve anche essere personale. E allora potrei raccontare del fotografo di Puccini a Torre del Lago e a Viareggio, il Cavalier (come teneva a firmarsi) Giorgio Magrini (anche la foto che si vede qui sopra è sua). Fino a dieci anni fa uno dei due nipoti, Giuseppe, aveva ancora un negozio di ottica e fotografia a Viareggio, in via Zanardelli. Vi si potevano trovare le cartoline con le foto di Puccini scattate dal nonno, con il vistoso copyright: “Foto del Cav. G. Magrini”. Puccini era molto attento a quella che oggi si definirebbe “gestione dell’immagine”, tanto da arrivare in più di un caso a delle vere e proprie sponsorizzazioni (per le automobili, per esempio). L’altro nipote di Giorgio Magrini, tuttora in attività, è Ugolino, fotografo e pittore molto conosciuto in Versilia.

Si potrebbe dire del Margherita, il caffè dalle linee liberty frequentato da Puccini e dagli artisti e intellettuali versiliesi dell’epoca, che dopo aver resistito per anni come caffè-ristorante, essere poi diventato una pizzeria e un locale un po’ chip, oggi è una libreria Mondadori. La grande scultura che raffigurava Puccini seduto con la sigaretta in mano è stata rimossa, in compenso all’interno della libreria si vendono libri fotografici, biografie e saggi sulle sue opere. The times, they are a‑changin’ cantava Bob Dylan.

Nella sua casa di Viareggio, oggi a cento metri circa dal grande lungomare, all’angolo della pineta, ma allora praticamente sulla spiaggia, abitano da tempo due giovani e bravissimi architetti e la loro mamma. L’edificio è decisamente délabré, ma le persone che lo abitano hanno impedito che diventasse una villetta borghese ristrutturata da geometri. È molto più che qualcosa, vedendo cosa è capitato ai tanti, bellissimi edifici della Viareggio d’epoca, trasformati con pochissima cura e rispetto.

E a proposito di geometri, ora, nel brutto piazzale costruito davanti alla villa di Torre del Lago sorge un Teatro in muratura (vedi la storia di Kaplan. Cosa c’entra? C’entra, c’entra! quando arrivano i soldi si può fare di tutto). Niente concorso internazionale. L’edificio pare sia funzionale, ma esteticamente potrebbe essere opera di uno dei praticoni che hanno edificato così tante tavernette e porticati nella zone circostanti, da far diventare Torre del Lago una delle destinazioni più ambìte per il soggiorno obbligato dai condannati di mezza italia. Brutto porta brutto. Nelle sere d’estate, sotto i potentissimi riflettori, gli acuti fanno a gara con il ronzio delle zanzare. L’Autan regna incontrastato; come la Violetta di Parma nei teatri piemontesi di un paio di decenni fa.

Quante altre cose si potrebbero dire. Ma oggi ci si può fermare qui, e aggiungere semplicemente: auguri, grandissimo Giacomo!