Ma quali gulag, sono seminari di poesia!

2 Maggio 2009 § 0 commenti § permalink

Che dire di Abbado che, dopo avere ritualmente decantato la Cuba delle scuole e degli ospedali, a domanda risponde:

Però c’è il rovescio della medaglia, le violazioni dei diritti umani, i gulag…
«Ma dove? Quali?»

Niente, meglio non dire niente. Il cielo lo benedica e gli faccia fare tanta bella musica nei secoli dei secoli. Ma se qualcuno mi parla ancora di Abbado sensibile, Abbado impegnato, Abbado ecologista

Zimerman l’antiamericano

28 Aprile 2009 § 0 commenti § permalink

zimerman

Che Krystian Zimerman non sia un uomo facile è cosa nota. Sulle sue idiosincrasie c’è tutta una letteratura, così come su praticamente ogni grande artista. E come sempre c’è chi dice con simpatia “è pazzo!”, e chi dice con livore “è furbo”.

Il blog Opera Chic, sempre informatissimo, segnalava ieri un articolo del Los Angeles Times sul debutto del pianista polacco alla Walt Disney Hall di Los Angeles, e dell’incidente che ha inaspettatamente creato. Dopo avere suonato normalmente per tutto il concerto (se si fa eccezione per la sostituzione di alcuni brani di Brahms con una sonata scritta nel 1953 della compositrice polacca Grazyna Bacewicz – le sostituzioni comunicate all’ultimo momento sono uno dei suoi scherzi preferiti), stava per attaccare l’ultimo brano del programma, le Variazioni su un tema popolare polacco di Karol Szymanowski, quando improvvisamente si è voltato verso il pubblico e ha cominciato una concione antiamericana, avvertendo di non volere più tornare in un paese “il cui esercito vuole conquistare il mondo”; ha poi continuato facendo riferimento a Guantanamo, e urlando persino “Giù le mani dal mio paese!”, mentre una quarantina di persone si alzavano e lasciavano la sala (“parli di esercito è c’è subito chi si mette a marciare” avrebbe detto, e bisogna dire che almeno questa è una buona battuta), e una parte del pubblico rimasto fischiava e lo invitava a riprendere il concerto. L’autore dell’articolo (il critico musicale Mark Swed) ci dice anche che la voce del pianista si sentiva molto poco in sala, e questo deve avere anche aumentato il ridicolo della scena.

Vale forse la pena di ricordare il precedente problema che Zimerman ebbe con gli Stati Uniti. Come altri grandi divi del pianoforte, Krystian gira il mondo portandosi dietro il suo strumento, costantemente controllato e amorevolmente tarato dalle sue stesse mani; a quanto si dice, Zimerman chiede persino di guidare personalmente il camion che trasporta il prezioso strumento da una sala da concerti all’altra. Poco dopo l’11 settembre 2001 il suo pianoforte fu fermato all’aeroporto JFK di New York e distrutto dai corpi di sicurezza della polizia di frontiera, apparentemente perché la colla aveva lo stesso aspetto (o lo stesso odore) di un certo tipo di esplosivo. Da allora, ci ricorda Mark Swed, Zimerman quando deve spostarsi in aereo fa viaggiare il suo pianoforte in pezzi separati, che vengono poi riassemblati sul posto.

Come si sa gli americani non amano che il loro paese venga denigrato. La misteriosa blogger di Opera Chic sembra furiosa con Zimerman, e ci va giù pesante; ci ricorda tra l’altro che è difficile sapere quale sia il suo paese, visto che Zimerman è residente in Svizzera. Altrettanto arrabbiati sembrano essere anche molti dei lettori del sito del Los Angeles Times. Altri invece plaudono e alcuni persino ringraziano (ma non sapremo mai di che paese sono). Sembra davvero che musica e politica non riescano più a camminare separati. È una tendenza da osservare con curiosità; senza dimenticare però che un grande artista rimane tale, e va amato anche quando ci spiazza o stupisce con la sua diversità.

Foto: © Kasskara / Deutsche Grammophon

Che cosa hanno veramente suonato per Obama?

13 Febbraio 2009 § 0 commenti § permalink

Come è noto, un quartetto all-stars formato da Yo-Yo Ma, Itzhak Perlman, Gabriela Montero e Anthony McGill ha eseguito, poco prima del giuramento di Barak Obama, “Air and Simple Gift”, una composizione scritta per l’occasione da John Williams. Data la temperatura, i quattro musicisti hanno suonato in play-back, cioè agli ascoltatori era diffusa una versione preregistrata del pezzo. Ma visto che, per esigenze di figura, davanti agli strumentisti erano stati piazzati dei microfoni, qualcuno potrebbe chiedersi che cosa questi microfoni abbiano captato in quello storico evento.

In breve: che cosa hanno veramente suonato i quattro esperti musicisti? Ci viene oggi in aiuto una ricostruzione (satirica?) messa a disposizione di YouTube da qualche informato insider. La segnala Alex Ross, che ringrazio.

La vittoria dei Moderate Chic

11 Febbraio 2009 § 0 commenti § permalink

tomwolfe

Alcuni giorni fa, il Magazine del “Corriere della Sera” ha pubblicato la traduzione di un bellissimo articolo di Tom Wolfe. Si trattava di un chilometrico, iperbolico e pirotecnico pezzo scritto da Wolfe per ricordare il geniale editore Clay Felker e gli anni d’oro del “New York Magazine”. Purtroppo non l’ho trovato né sul sito del Corriere né su nessun altro sito in italiano, ma questo è l’originale pubblicato dal “New York”. Si parla degli anni migliori del giornalismo di costume, quando l’indagine sulla stratificazione sociale, gli stili di vita e l’individuazione di status è diventata un’arte e un genere letterario. E si parla anche della nascita dell’articolo che ha proiettato lo stesso Wolfe nel firmamento del giornalismo di costume americano; l’articolo che ha creato la definizione poi abusata di Radical chic, e assestato una mazzata micidiale alla coppia più elegante di New York: quella formata da Leonard e Felicia Bernstein.

Riassumo in breve il passaggio dedicato a quell’avvenimento, famosissimo ma sempre divertente. Wolfe una mattina bighellonava nella redazione di una rivista concorrente (Harper’s), quando su un tavolo avvista un cartoncino d’invito; curioso come dev’essere un cacciatore di costumi, lo apre e rabbrividendo scopre che riguardava un party nel celebre attico dei Bernstein a Park Avenue, organizzato in sostegno delle Pantere Nere. La crème dell’alta società bianca che invita le Pantere Nere a un party! Il massimo dell’esausto da stravizi che cerca il brivido perduto con il massimo della gioventù muscolosa e furiosa!

new_york_wolfe

Naturalmente Wolfe si presenta dai Bernstein con in tasca un registratore e tenendo ben visibili una penna e un taccuino (così dice lui, ma i Bernstein hanno sempre sostenuto che si fosse del tutto mimetizzato). Ne nasce uno dei reportage più memorabili degli anni Settanta: occuperà praticamente tutto il numero dell’8 giugno 1970 del “New York”, e insieme a un altro pezzo di feroce satira sociale diventerà molti anni dopo il libro Radical Chic & Mau-Mauing the Flak Catchers, tradotto in italiano da Castelvecchi con il titolo Radical chic. I Bernstein non perdoneranno mai Wolfe e il coraggioso Felker, e ancora molti anni dopo la loro figlia si lamenterà del “tradimento” di avere introdotto un registratore a un party privato. L’articolo è di incredibile perfidia, intelligenza e brillantezza, com’era il Wolfe degli anni della Fiera delle vanità; anche solo la copertina della rivista, che raffigura tre signore un po’ fané, in abito da sera ma con il pugno guantato delle Pantere, è roba da distruggere una credibilità sociale. I pensieri che Wolfe fa esprimere ai padroni di casa non sono da meno. “Piaceranno alle Pantere queste tartine di Roquefort coperte da briciole di noci?”

Se oggi mi viene in mente questo articolo non è solo grazie al pezzo del Corriere, ma perché mi è capitato di leggere il breve appello di Daniel Barenboim, firmato da decine e decine di intellettuali e artisti, e pubblicato sull’ultimo numero della “New York Review of Books”. Scorrere i nomi che hanno sottoscritto l’appello fa una certa impressione: quanta parte dell’establishment culturale! Per una volta, indubbiamente grazie a Barenboim, anche il mondo della musica e ben rappresentato. L’appello dice una cosa semplice come l’acqua fresca: “tanti anni di guerra in Medio Oriente hanno provato che non è così che si arriva alla pace. Fate la pace, please. Dimenticate il passato e create le condizioni per un futuro che rispetti i diritti di tutti, di una e dell’altra parte”. Che strano messaggio. Perché la crème dell’aristocrazia culturale pensa che mettere la firma sotto un documento così possa fare qualcosa per la pace in Palestina? Barenboim ha scritto libri, collaborato con grandi intellettuali come Edward Said, pubblicato diversi ottimi articoli e appelli, persino fondato un’orchestra che raccoglie giovani musicisti delle due parti. Ha una consapevolezza storica e politica che sembra essere ben distante da quella di tanti artisti che lanciano generici messaggi pacifisti; anche per questo un appello così scialbo proprio non riesco a capirlo.

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E si affaccia, naturalmente, il dubbio perfido che questo moderatismo genericamente pacifista, imperante nel mondo delle arti ormai da molti anni, ben rafforzato dalla vacuità melodiosa di mille musicisti da “La vita è bella”, impegnati a suonare in playback per Obama o all’Auditorium per Veltroni, siano il nuovo cultural chic contemporaneo. Meno ridicolo del radical chic, forse; sicuramente un bersaglio più difficile anche per il più pungente dei satiristi sociali. Ma comunque una forma di vacuità artistica e intellettuale altrettanto sgradevole. Ma naturalmente è solo un dubbio.

Nella foto in alto, Tom Wolfe negli anni di Radical Chic (non conosco l’autore della foto). Più in basso, il famoso numero di “New York Magazine” quasi totalmente dedicato all’articolo sul party dai Bernstein. Più in basso ancora, Daniel Barenboim prova con la West-Eastern Divan Orchestra, l’orchestra formata da giovani palestinesi e israeliani (foto proveniente da Intermezzo, che ringrazio).

Take Care of This House

20 Gennaio 2009 § 0 commenti § permalink

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1600 Pennsylvania Avenue” non è solo l’indirizzo della casa che da oggi avrà come nuovi inquilini Barak Obama e famiglia: è anche il titolo della meno conosciuta e rappresentata fra le opere di Leonard Bernstein. Non viene rappresentata perché non si può: la Bernstein Foundation, che raccoglie l’eredità del grande Lenny, lo proibisce; e lo proibisce perché così volle Leonard, quando lo spettacolo, un musical, l’8 maggio del 1976 chiuse i battenti dopo soltanto 7 recite, massacrato dalla critica e deriso dal pubblico. Durante le 13 “anteprime”, conscio del fatto che la debolezza fosse da addebitarsi soprattutto al libretto di Alan Jay Lerner, Bernstein chiamò al capezzale del suo spettacolo tutti i migliori amici, Jerome Robbins compreso, che furono concordi nel considerarlo irrecuperabile. Si potrebbe dire che 1600 Pennsylvania Avenue sia stata la più grande delusione della carriera di Bernstein; eppure fu anche l’opera per la quale, in assoluto, scrisse più musica: più di Candide, più di A Quiet Place. Se si vuole conoscere la storia di questo sfortunato musical, si può leggere il succinto ma preciso articolo di wikipedia.

Il libretto è un intrico di plot e subplot, il cui filo principale era definito dal curioso sottotitolo: “A musical about the problems of housekeeping”, dove la “cura della casa” (housekeeping), visto di quale casa si tratta, assume tutta una serie di significati politici e satirici. In questo filo narrativo principale sono rappresentati 12 presidenti degli Stati Uniti, da George Washington a Theodor Roosevelt (dunque dalla fine del Settecento ai primi del Novecento), ognuno con una propria particolare scena. C’è dunque il bozzetto parlamentare, con Washington e i delegati del Congresso che discutono su quale dovesse essere la capitale degli Stati Uniti, poi John Adams e consorte, quindi Jefferson che organizza un luculliano pranzo ufficiale, Madison che fugge e gli inglesi che tentano di dare fuoco alla Casa Bianca (1812), James Monroe e la moglie che non riescono a prendere sonno e discutono di schiavitù, e così via, fino all’augurio che Roosevelt porge al nuovo secolo. Dal punto di vista musicale, ogni situazione è un diverso pezzo di bravura: arie liriche, duetti, terzetti, concertati, cori, pezzi da ballo con finta musica ottocentesca, una Minstrel parade jazzistica, blues e via dicendo; si prenda per esempio lo strepitoso tour de force di un duetto per il soprano solo che si svolge durante il giuramento di Rutherford Hayes (1877), dove la stessa cantante alterna velocemente le emozioni della moglie del presidente uscente Grant e di quella dell’eletto Hayes, la prima che impazzisce di rabbia per il potere perduto e di invidia per la seconda, che invece conta i secondi che la separano dal diventare finalmente First Lady. Nonostante il fiasco, si tratta di un Berstein in gran forma.

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Accanto a questo primo filo narrativo, soprattutto nella prima parte, se ne intreccia un secondo che ritrae la vita dei due domestici neri della Casa Bianca, Lud e Seena, dalla gioventù alla vecchiaia, e attraverso la loro storia (i due si innamorano, si sposano, si confrontano con i diversi presidenti) il problema della schiavitù e poi dei diritti dei neri. A tutto questo si aggiunge un terzo filo narrativo, molto di moda all’epoca e oggi piuttosto demodè: le discussioni della compagnia di attori e cantanti che sta provando l’opera, e che ogni tanto si ferma per analizzare le questioni politiche e sociali collegate. Insomma, una trama forse inutilmente intricata per un totale di più di quattro ore di spettacolo. Troppo sia per il pubblico sia per la critica.

Dopo la morte di Bernstein, pur rimanendo il veto alla rappresentazione (credo che un solo allestimento, nel 1992, superò questa censura), dallo spettacolo fu ricavata una Cantata di 80 minuti circa, che cuciva insieme i numeri musicali più belli, eliminando totalmente il subplot di “teatro nel teatro”: A White House Cantata. Nel 1998 Kent Nagano la incise per la Deutsche Grammophon, con una compagnia di canto (Thomas Hampson, June Anderson, Barbara Hendricks ecc.) che spostava decisamente in ambito lirico il sound e l’impostazione generale dell’opera, mantenendo tuttavia l’orchestrazione originale del musical. È solo da quell’incisione che oggi ci si può fare un’idea di quali perle contenesse 1600 Pennsylvania Avenue, e di quanto varrebbe la pena di riscoprirla. Alcuni numeri della partitura originale furono trapiantati da Bernstein in altri lavori, altri riuscirono a sopravvivere nonostante il veto.

Fra questi ultimi, la bellissima aria di Abigail Adams, la moglie del secondo presidente, che rivolgendosi al domestico ancora bambino gli raccomanda di prendersi cura della Casa anche quando loro non ci saranno più: “Care for this house | It’s the hope of us all”. Un song sofisticato, pieno di quel senso di felicità e facilità inventiva che è la grandezza di Bernstein, ma che lo condannerà per sempre agli occhi della critica più bacchettona.

Melodia, armonia, ritmo e retorica: difficile pensare a qualcosa di più americano di “Take Care of This House”: Frederica Von Stade, sotto la direzione di Bernstein, la cantò nel concerto dell’“Inauguration Day” di Jimmy Carter, 32 anni fa esatti esatti. Oggi il marketing del sogno di Obama ha richiesto ben altro concerto, ma per il grande amore che tutti (spero) portiamo al grande Lenny, può essere di ottimo auspicio rinnovare oggi l’invito di Abigail, con tutto il cuore: take care of this house, Barak. Dato l’inquilino precedente, ne ha molto bisogno.

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Take Care of This House”, June Anderson (sop.), Victor Acquah (v. bianca), da L. Bernstein, A White House Cantata, London Symphony Orchestra, London Voices, dir. Kent Nagano. Deutsche Grammophon 463 448–2.

Foto in alto: Bernstein a metà degli anni ’70, © Bernice Perry.

A Mendelssohn tutto è vietato?

13 Gennaio 2009 § 0 commenti § permalink

mendelssohnNon comincia in maniera festosa il bicentenario della nascita di Mendelssohn. In un articolo di Jessica Duchen pubblicato ieri sull’«Independent» di Londra, si racconta infatti di un mistero legato allo strettissimo rapporto affettivo che legò il compositore al leggendario soprano Jenny Lind, che secondo un importante musicologo, Curtis Price, potrebbe gettare una luce fosca sulle circostanze della morte di Mendelssohn.

jenny_lindIl mistero avrebbe origine da un “affidavit”, una dichiarazione sottoscritta da Otto Goldschmidt, allievo di Mendelssohn e marito di Jenny Lind, depositato nell’archivio della Mendelssohn Scholarship Foundation (oggi ospitato dalla Royal Academy of Music di Londra), attraverso il quale nel 1896 dichiarava di avere distrutto una lettera del compositore alla cantante; nella lettera, datata 1847, Mendelssohn confessava il suo violento amore alla donna, le chiedeva di fuggire insieme a lui in America e minacciava il suicidio in caso di rifiuto. Scrive la Duchen: “Lind, come si può immaginare, rifiutò. Pochi mesi dopo il compositore era morto”.

Il documento di Goldschmidt avrebbe dovuto rimanere segreto per 100 anni, e dunque fino al 1996, ma per qualche strano motivo continuerebbe a essere tenuto nascosto, nonostante le insistenze di diversi studiosi, tra cui l’autrice dell’articolo. Nel 1847, l’anno della misteriosa lettera e della morte di Mendelssohn, Jenny Lind era ancora nubile (si sarebbe sposata cinque anni dopo), ma Felix era legato da dieci anni a Cécile Jeanrenaud in quello che è sempre stato descritto dall’agiografia romantica come un matrimonio straordinariamente felice; dall’unione erano già nati cinque figli.

Jenny Lind è una figura quasi leggendaria della storia dell’opera. L’“usignolo svedese”, come era soprannominata, oltre a una capacità vocale che le fruttò una precoce fama in tutto il mondo (celebre è rimasto il suo tour americano organizzato da P.T. Barnum, che le versò una cifra colossale per oltre 150 concerti) doveva essere dotata di un discreto fascino, se fra i sui grandi ammiratori si ricordano anche Hans Christian Andersen e Frederic Chopin. Il primo ruolo a cui è legata la sua carriera è quello di Agathe nel Freischütz di Weber; nel 1847 sarà Amalia alla prima mondiale dei Masnadieri di Verdi a Londra. Per lei Mendelssohn sognava di scrivere un’opera ispirata alla Lorelei, e se non riuscì mai a realizzare questo desiderio, per la sua voce scrisse nel 1846 la parte di soprano nel meraviglioso oratorio Elias. In fondo, che sotto il sublime religioso ci sia un fondamento erotico non è certo una cosa nuova; anzi, è per molti versi rassicurante. Per un anno, dopo la morte del compositore, Jenny non riuscì a riavvicinarsi all’oratorio; lo fece di nuovo nel 1848, raccogliendo più di 1000 sterline con cui creò proprio la Mendelssohn Scholarship Foundation, una fondazione votata alla protezione dei giovani compositori e musicisti. Quella stessa che oggi non sembra voler rivelare la verità sul rapporto tra lei e il compositore.

Ma perché tanto mistero? Che cosa c’è di scandaloso in questa storia? Assolutamente nulla, se si osserva la cosa con occhio disincantato e moderno. Che Mendelssohn non fosse quella figura di romantico e in fondo felice sognatore che lo schmalz Biedermeier tramanda si sapeva da tempo; i danni che questa caricatura borghese ha fatto alle ricezione della sua musica sono gravi, forse pari all’odio che il nazismo gli dimostrò per motivi razziali. Nell’articolo della Duchen, il violoncellista Steven Isserlis – che scopriamo essere lontano parente di Mendelssohn – invita all’ascolto del Quartetto in fa minore (op. 80), per rendersi conto di quanto potesse essere tormentata la sua musica (la sua anima?) sotto la superficie. Ma per qualche oscura ragione, a duecento anni dalla nascita, non si vuole che su questo compositore si getti uno sguardo diretto e limpido. Non comincia in maniera festosa, dunque, il suo anniversario; ma non è detto che tutto il male venga per nuocere.

* * *

Questa è forse la più bella delle arie che il soprano canta nell’Elias: “Höre, Israel!”, con cui si apre la seconda parte dell’oratorio. Il soprano è Elly Ameling, e Wolgang Sawallish dirige l’orchestra della Gewandhaus di Lipsia, nell’incisione Philips del 1968.

In altro a sinistra, Jenny Lind nel 1846, ritratta da Eduard Magnus (Berlino, Staatliche Museen zu Berlin, Nationalgalerie); a destra, Mendelssohn dieci anni prima nel ritratto di Theodor Hildebrandt (Berlino, Deutsches Historisches Museum).

Le parole di Barenboim e gli alberi di Abbado

5 Gennaio 2009 § 2 commenti § permalink

ulivo4

Venerdì 2 gennaio, a pagina 5 della «Repubblica» è apparso un breve articolo in cui Daniel Barenboim commenta la drammatica situazione della striscia di Gaza; non l’ho trovato sul sito del giornale, e così lo ricopio io stesso. È un intervento semplice e diretto, che affronta a viso aperto la tremenda difficoltà del conflitto (un “conflitto umano” lo chiama, con quella che mi sembra una bellissima espressione), indicando senza abbandonarsi al luogo comune pacifista l’esigenza inevitabile di una riapertura del dialogo. Barenboim è un musicista, non un politologo, ma scrive e agisce dimostrando la convinzione che nulla di ciò che accade ci possa essere estraneo, ben sapendo che la posizione privilegiata offertagli dallo straordinario livello artistico del suo lavoro può anche essere utilizzata per intervenire nelle grandi emergenze del momento. Ecco il testo:

Per il nuovo anno ho tre desideri. Il primo è che il governo israeliano si renda conto, una volta per tutte, che il conflitto in Medio Oriente non può essere risolto con mezzi militari. Il secondo, è che Hamas si renda conto che non è suo interesse servirsi della violenza e che Israele è qui per rimanere. Il terzo è che il mondo riconosca che questo è un conflitto diverso da tutti gli altri conflitti della storia. È un conflitto complesso e delicato come nessun altro; è un conflitto umano tra due popoli, entrambi profondamente convinti del loro diritto di vivere sul medesimo piccolo lembo di terra. Ecco perché né la diplomazia né l’azione militare possono risolverlo. Gli sviluppi degli ultimi giorni mi preoccupano terribilmente per molte ragioni, sia di natura politica che umana. Sebbene sia di per sé evidente che Israele ha il diritto di difendersi, l’implacabile e brutale bombardamento di Gaza da parte dell’esercito israeliano ha fatto nascere nella mia mente alcuni gravi interrogativi. Il primo è se il governo israeliano abbia il diritto di ritenere tutti i palestinesi colpevoli delle azioni di Hamas. Si può considerare l’intera popolazione di Gaza responsabile dei peccati di un’organizzazione terroristica? E poi, se l’uccisione di civili è inevitabile, qual è lo scopo di questi bombardamenti? Se l’obiettivo delle operazioni è quello di distruggere Hamas, allora la domanda più importante da porsi è se si tratta di un obiettivo raggiungibile. Se non lo è, l’intero attacco è non soltanto crudele, barbaro e riprovevole, ma anche insensato. Se invece fosse davvero possibile distruggere Hamas attraverso le operazioni militari, quale reazione Israele prevede che potrà verificarsi a Gaza una volta conseguito tale obiettivo? Un milione e mezzo di cittadini di Gaza non si inginocchieranno improvvisamente di fronte alla potenza dell’esercito israeliano. La recente storia di Israele mi porta a ritenere che se Hamas venisse distrutta, quasi certamente il suo posto verrebbe preso da un’altra organizzazione, un’organizzazione ancora più estremista, violenta e carica di odio nei confronti di Israele di quanto non sia oggi Hamas. Israele non può permettersi una sconfitta militare per paura di scomparire dalla carta geografica; tuttavia la storia ha dimostrato che tutte le vittorie militari hanno sempre lasciato Israele in una posizione politica più debole a causa dell’affiorare di nuovi gruppi estremisti. Non sottovaluto la difficoltà delle decisioni che il governo deve prendere ogni giorno, né l’importanza della sicurezza. Ciò nonostante, resto dell’idea che l’unico piano di sicurezza a lungo termine veramente attuabile sia quello di conquistare l’accettazione di tutti i nostri vicini. Mi auguro che il 2009 segni il recupero della famosa intelligenza da sempre attribuita agli ebrei. Mi auguro che coloro che detengono le chiavi del potere ritrovino la saggezza di Re Salomone e la impieghino per capire che palestinesi ed israeliani hanno gli stessi diritti umani. La violenza palestinese tormenta gli israeliani e non serve alla causa della Palestina; le ritorsioni dell’esercito israeliano sono inumane, immorali e non garantiscono la sicurezza di Israele. Come ho già detto, i destini dei due popoli sono inestricabilmente intrecciati, e li obbligano a vivere l’uno accanto all’altro. Essi devono decidere se vogliono che ciò sia una benedizione o una condanna.

Una posizione del genere, nella quale l’artista dimostra di essere umanamente radicato nella storia del presente, con competenze e convinzioni serie e fondate e il desiderio di discuterle pubblicamente, è un’eccezione. Gli artisti, anche quelli di ottimo livello intellettuale, generalmente sfuggono a qualsiasi discussione che li possa costringere a prendere una posizione, anche quando passano per “impegnati”.

Pochi giorni prima mi era capitato di leggere l’intervista di Giuseppina Manin a Claudio Abbado, pubblicata sul «Corriere della Sera» del 30 dicembre. Certo, il contesto è molto diverso; certo, il tono è volutamente più leggero; certo, si tratta di un’intervista e non di un articolo. Ma non è la prima volta che un musicista come Abbado, a cui la vita ha dato molte più possibilità di vedere, di incontrare e di conoscere che a gran parte di noi, esprime le sue opinioni sul presente con questa distanza aristocratica. Personalmente la differenza mi ha fatto una certa impressione, ma ognuno faccia le sue valutazioni. È una questione di tono, di rapporto con il mondo e con il presente storico. Una “questione umana” verrebbe da dire, parafrasando Barenboim.

Un allevamento al Senato

24 Dicembre 2008 § 1 commento § permalink

allevi

Alla fine di un precedente post, in cui si parlava della questione Kaplan-NY Philharmonic, facevo cenno all’impressione che mi aveva fatto vedere Giovanni Allevi snocciolare le sue banalità sonore al Senato, e vedere mezzo Parlamento italiano acclamarlo in piedi come fosse Stravinskij redivivo. La sensazione che avevo sentito dentro di me, e avevo subito cercato di comunicare agli amici, era stata di offesa: la sensazione quasi fisica di uno schiaffo. Si passa la vita a capire che cosa è buono e che cosa non lo è, a distinuere gli amici veri da quelli meno, a imparare a scegliere. Che Giovanni Allevi possa vendere migliaia/milioni/miliardi di dischi non è una cosa che mi offende: se li hanno venduti le Spice Girls, perché Allevi non dovrebbe? Perché la sua melodia allude alla tradizione classica? È la prova che quando il marketing coglie un’onda, la sa portare fino a riva fregandosene di qualsiasi diga o distinzione: negli anni abbiamo visto le case discografiche cavalcare i più disparati generi, scherzare con la politica, la cultura, la fede. Se si tratta di fare soldi, tutto può funzionare, e nessun cavallo è davvero zoppo: facciamo tornare il crooner alla Bublè, il cantante latino impegnato alla Manu Chao, il tenore alla Bocelli, il violinista alla Kennedy, il coro di monaci dell’abbazia cistercense. Potrebbero farcela anche con un quartetto di tube wagneriane, se solo trovassero il mix accattivante.

Ma a costo di farlo io, il vecchio trombone, devo dire che per me un concerto al Senato ha un valore diverso. Non è una sala che si affitta per i party aziendali; non è un teatro che si subappalta alle agenzie; non è uno studio televisivo, anche se c’è chi lavora indefessamente per farcelo diventare. Insomma, vedere quella che dovrebbe essere l’élite culturale e politica del paese (si pensi alla figura del senatore a vita), spellarsi le mani e inchinarsi davanti a un artista che ha fatto della faciloneria e della superficie la propria fortuna, mi ha fatto sentire offeso nel profondo. Giuro, proprio nel profondo.

Ma se oggi ci torno su, è perché per una volta i miei sentimenti hanno trovato espressione quasi letterale nelle parole di un artista verso il quale nutro sentimenti contrastanti, ma che sicuramente rappresenta qualcosa di infinitamente distante dal giovanissimo musicista-filosofo-poeta-creativo-a-tutto-tondo: Uto Ughi.

La bella intervista di Sandro Cappelletto sulla Stampa di oggi, riporta frasi intere di Ughi che sottoscriverei senza cambiare una virgola. Lo sconcerto sui consulenti musicali del Senato, il negare la parentela con la tradizione classica, la sensazione di un inquinamento della verità e del gusto, del furbo cavalcare un equivoco culturale. Solo quando parla del “trionfo del relativismo”, giusto perché so dove si va poi a parare, richiamerei un più semplice “qualunquismo” o una più universale “superficialità”. Non sarà certo un caso, se molti quotidiani nella versione on-line hanno ripreso un lancio d’agenzia che descriveva l’omaggio di Allevi, durante il concerto, al grande compositore Giovanni Puccini, di cui si celebra quest’anno il 150° anniversario. Per non parlare poi della presentatrice, Milly Carlucci, e del suo tono sfrontatamente, fastidiosamente triofalistico e genuflesso nei confronti del presidente del Senato e della maggioranza che lo ha insediato; tutto torna, se si pensa che Milly è la sorella dell’ineffabile Gabriella, la massima esperta di spettacolo che il governo del Cavaliere abbia saputo esprimere.

In quanto alla frase di Allevi, raggelante per ignoranza e presunzione, che Cappelletto riporta in chiusura dell’articolo (“La mia musica avrà sulla musica classica lo stesso impatto che l’Islam sta avendo sulla civiltà occidentale”), la accosterei alla fantasmagorica teoria estetica espressa altrove dal piccolo Leonardo: “stiamo tornando nel Rinascimento italiano, dove l’artista deve essere un po’ filosofo, un po’ inventore, un po’ folle, deve uscire dalla torre d’avorio e avvicinarsi al sentire comune”. Ma che Rinascimento ha studiato, Allevi?

Va bene che il Senato di questa legislatura non è certo un’Accademia platonica, ma porca misera, un po’ meno di acquiescenza bovina avrebbe fatto bene a tutti. Specialmente quando quelle manine che si spellano ad applaudire, sono poi le stesse che schiacciano il pulsantino del “sì” per votare dei pesanti tagli all’inutile cultura passatista. Una promessa concreta: più Allevi per tutti.

Radio classiche? Chiudere subito!

20 Novembre 2008 § 0 commenti § permalink

concertzender

Mentre le emittenti radiofoniche dedicate alla musica classica stanno affrontando difficoltà economiche più o meno gravi in tutto il mondo, c’è n’è una che prospera, se non economicamente, in fatto di abbonati e ascoltatori. Si tratta della storica Concertzender, un’emittente olandese che, come la nostra coraggiosa amica Rete Toscana Classica, è ascoltabile anche attraverso la rete, ma a differenza di quest’ultima appartiene al circuito del Sistema radiofonico pubblico olandese (NPO — Nederlandse Publieke Omroep), e dipende quindi largamente da un contributo pubblico che si aggira intorno ai 500 mila euro annui. Concertzender può tuttavia contare anche su un nutrito gruppo di sostenitori privati, che contribuiscono sia con il lavoro volontario sia con aiuti economici al sostentamento della loro emittente amica. Oltre alla musica classica (con un canale dedicato all’antica) Concertzender trasmette musica world e jazz, oltre a registrare decine di concerti dal vivo per diffonderli in un canale streaming dedicato. Gli ascolti vanno bene e crescono, e i contatti via etere e via rete si aggirano intorno alle 600 mila unità, senza contare gli ascoltatori via cavo.

Bene, dovrebbero essere tutti felici di un gioiello del genere, vero? E invece no. Perché 600 mila ascoltatori sono davvero troppi, e danno fastidio. E dunque i dirigenti delle altre radio pubbliche hanno chiesto a gran voce allo stato il taglio dei finanziamenti a Concertzender. E, incredibile a dirsi, l’hanno ottenuto. Ieri l’altro è stato comunicato ai dipendenti dell’emittente che l’amministrazione pubblica ha deciso per la sospensione del finanziamento (attenzione, non a causa della crisi, ma per ridistribuire il contributo destinato a concertzender sulle altre emittenti attive – non di classica, ça va sans-dire). Gli ascoltatori di tutto il mondo si stanno mobilitando, ma l’efficacia della protesta è dubbia. I dirigenti e i collaboratori, invece, stanno facendo i loro conti per capire se sarà possibile proseguire le trasmissioni dopo il taglio del sostegno pubblico. Quello che gli ascoltatori vecchi e nuovi possono fare, è mandare un messaggio a questo indirizzo, dicendo con tutti i punti esclamativi del caso che quella del taglio dei finanziamenti è veramente una pessima idea.

E c’è anche da dire che la questione degli ascolti alti ma non abbastanza, dei finanziamenti e dell’indifferenza nei confronti della sostanziale scomparsa della musica classica (e jazz, e world di alto livello) dalle trasmissioni radio ricorda molto da vicino la più volte minacciata eliminazione del canale Auditorium della (ex) filodiffusione, ascoltabile purtroppo in poche città italiane via radio, e su tutto il territorio raggiunto dall’Adsl via internet. Che rabbia.

AGGIORNAMENTO DEL 20 NOVEMBRE 2008

Qualcosa si muove. Dopo le proteste via internet arrivate da tutto il mondo, il ministro della cultura olandese ha dichiarato che farà pressione sul Nederlandse Publieke Omroep (NPO) perché i contributi a Concertzender non vengano sospesi. Qui la pagina in cui l’emittente annuncia la novità.

A Nackerter im Hawelka!

8 Novembre 2008 § 0 commenti § permalink

danzer

Che ci fa un uomo nudo da Hawelka? Visto che a parlare di caffè viennesi si passa subito per nostalgici, ecco il link al video di una famosa canzone di Georg Danzer: Jö schau! (che vorrebbe dire Hei guarda!). Danzer è un cantautore viennese morto nel 2007, portato al successo nel 1975 proprio da questa canzone, famosissima in Austria; da lì nacque il famigerato austropop, il genere dominante per decenni nei palinsesti delle radio locali. Parla di un cliente che vede entrare un uomo nudo da Hawelka: è cantata in viennese stretto, praticamente incomprensibile fuori dal Graben e dintorni (chi volesse provare a tradurla, si accomodi). La cosa divertente è che nel video, molto anni Ottanta, si vedono Leopold Hawelka e signora nel loro locale, nonché una buffa ricreazione della clientela tipica. Un simpatico tizio ha provato davvero a entrarci, nudo o quasi, da Hawelka, e a far filmare le reazioni dagli amici; e questa volta, insieme a uno sconcertato Leopold si vede anche il figlio Günther, che lo tira per un braccio. Spirito viennese: un po’ greve alla lunga, ma sempre divertente

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