Ritagli — Ian McEwan e l’elogio della curiosità

22 Aprile 2009 § 0 commenti § permalink

«Eppure è proprio alla curiosità, a quella scientifica in particolare, che dobbiamo una conoscenza genuina e verificabile del mondo, e la parziale comprensione del nostro ruolo in esso, come della nostra natura e condizione. Tale conoscenza possiede una bellezza tutta speciale, e può risultare tremenda. Stiamo appena cominciando ad afferrare le conseguenze di quanto abbiamo effettivamente imparato in tempi relativamente recenti. E che cosa abbiamo imparato? Mi avvalgo qui di un saggio di Stephen Pinker sul suo ideale di universalità: abbiamo imparato, tra le altre cose, che il nostro pianeta è un puntolino minuscolo in un cosmo di inconcepibile vastità; che la nostra specie esiste sulla terra da una irrisoria frazione di tempo storico; che gli esseri umani sono dei primati; che il pensiero è frutto dell’attività di un organo funzionante sulla base di processi fisiologici; che esistono metodi di accertamento della verità che possono condurci, talvolta anche in modo radicale, a conclusioni in contrasto con le leggi del buon senso, in relazione agli universi del molto grande e del molto piccolo; che credenze anche molto preziose e diffuse, se sottoposte al vaglio della pratica empirica, risultano spesso impietosamente false; che non è possibile produrre energia né sfruttarla senza registrare una perdita.»

Questo è l’insolito Ian McEwan conferenziere laico (o per meglio dire ateo) in Blues della fine del mondo (Einaudi, 2008). Un brevissimo (forse anche troppo: 44 pagine di testo a 9 euro) pamphlet contro lo sfruttamento degli argomenti escatologici da parte delle religioni, derivante da una conferenza tenuta all’Università di Stanford (poi inserita nel libro The Portable Atheist: Essential Readings for the Non-Believer a cura di Christopher Hitchens). E a pagina 41 arriva questo elogio della curiosità, aborrita dall’oscurantismo e via di salvezza per l’uomo che non si arrende all’ignoranza.

Fierrabras e il mondo dei blog

18 Aprile 2009 § 3 commenti § permalink

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Continuare o no? Questo è stato il dubbio su cui mi sono fermato a pensare per tutto questo tempo (la pausa più lunga da quando ho cominciato Fierrabras). Le cause di questo dubbio sono da ricercare in parte in una certa stanchezza, in parte in una serie di interrogativi di carattere quasi ontologico. Che cosa è esattamente un blog, a cosa serve, a chi si rivolge? La continua osservazione dei siti e dei blog dedicati alla musica nell’intera rete ha portato con sé tutta una serie di considerazioni, che lentamente hanno cominciato a chiedere di essere fatte con la dovuta calma, per non procedere alla cieca. Le riassumo in breve:

  1. Il mondo dei blog e dei siti personali riconducibili al concetto di “giornalismo diffuso” comincia a essere caratterizzato da un’inquietante omogeneità. Lo stesso post, spesso legato a un articolo di un quotidiano o all’osservazione di un evento, fa il giro di tutti i siti attraverso una catena di link incrociati. Dietro questo meccanismo si nasconde il grande nemico di chi ama la comunicazione e l’informazione: l’autoreferenzialità. Che i blog comincino a fare lo stesso errore che sta conducendo il giornalismo della carta stampata all’estinzione è un fatto abbastanza sconcertante. Il meccanismo: qualcuno (talvolta più persone contemporaneamente) getta nella rete un oggetto, un’idea che ricava dal “mondo esterno”: da allora questo oggetto – un articolo, un filmato, una fotografia, un’idea– rimbalza da un sito all’altro fino ad assumere un’importanza spropositata rispetto alla sua reale consistenza. Si tratta di una dinamica che offre al marketing, per fare un esempio, delle opportunità straordinarie (c’è chi dice che Obama abbia vinto così), ma che secondo me bisogna guardare con grande sospetto.
  2. L’altro elemento di pericolo che questo sistema comporta è la sostituzione della realtà e della memoria storica: quello che non si trova nella rete non è importante, non è degno di essere ricordato, non fa parte della storia e della vita. Eppure la porzione di realtà presentata da internet è minima. Immensa se paragonata a una biblioteca – così come fin dall’inizio si è voluto fare – minima se paragonata alla realtà del tempo e dello spazio, e alle loro capacità di dare una gerarchia di importanza alle cose e alle idee. Avendo la testa troppo “dentro la rete”, confondere le due cose e alterare tale gerarchia, che è poi il cuore più profondo dell’esperienza umana, è facile quanto pericoloso.
  3. Tenere un blog richiede una continua contrattazione fra il personale e il pubblico: tenere un diario personale e pubblicarlo in tempo reale mi appare come un fatto di stranissima quanto diffusa impudicizia; d’altro canto, presentarsi semplicemente come fornitori di informazione prescindendo dal dato non secondario che non si è un’agenzia, ma un singolo soggetto che cerca di condividere ciò che (per volontà o per caso) viene a sapere, rasenterebbe l’inganno (e l’autoinganno). Tuttavia mi piace ricordare che è proprio da questa contrattazione tra personale e pubblico che nascono le cose migliori, e non solo in rete. Io metto a disposizione degli altri le mie conoscenze e le mie passioni, ma per farlo le devo rendere prima interessanti e fruibili.

Dunque da un lato esiste un problema che riguarda lo “statuto di servizio”, se lo si vuole chiamare così, dei blog: perché lo si scrive, e per chi; dall’altro c’è la continua esigenza di non rimanere imprigionati nelle maglie dell’autoreferenzialità della rete. Mi piace l’idea che se un oggetto viene introdotto nella rete, dopo avere compiuto i necessari rimbalzi possa anche uscirne: se una foto è interessante o bella, deve produrre qualcosa al di fuori della rete: un’altra foto, un’azione, o una reazione. E che non finisca tutto in una sconfinata chiacchiera elettronica.

Ma alla fine di questi ragionamenti, vale o no la pena di continuare? La risposta che mi sono dato è sì. Ne vale la pena, cercando di portare in queste pagine oggetti e idee che provengano dall’esterno (dalla vita) – letture, ascolti, idee, osservazioni – e sperando che possano produrre altra vita, e non rimanere a nuotare nella vasca di internet. Vale la pena provarrci ancora, e magari con più impegno, vigilando tuttavia affinché, se questo scopo venisse meno, si sia capaci di smettere subito, e di dedicarsi ad altro.

* * *

La riflessione ha riguardato anche alcuni aspetti tecnici. Per avere un controllo migliore sulla piattaforma e aprirla a (eventuali) futuri sviluppi ho lasciato Typepad e sono passato a WordPress su hosting linux. Che dire: un lavoraccio.

La classica “pausa di riflessione”

23 Marzo 2009 § 1 commento § permalink

È in pieno svolgimento. Finirà presto, si spera.

pensatore

Che cosa hanno veramente suonato per Obama?

13 Febbraio 2009 § 0 commenti § permalink

Come è noto, un quartetto all-stars formato da Yo-Yo Ma, Itzhak Perlman, Gabriela Montero e Anthony McGill ha eseguito, poco prima del giuramento di Barak Obama, “Air and Simple Gift”, una composizione scritta per l’occasione da John Williams. Data la temperatura, i quattro musicisti hanno suonato in play-back, cioè agli ascoltatori era diffusa una versione preregistrata del pezzo. Ma visto che, per esigenze di figura, davanti agli strumentisti erano stati piazzati dei microfoni, qualcuno potrebbe chiedersi che cosa questi microfoni abbiano captato in quello storico evento.

In breve: che cosa hanno veramente suonato i quattro esperti musicisti? Ci viene oggi in aiuto una ricostruzione (satirica?) messa a disposizione di YouTube da qualche informato insider. La segnala Alex Ross, che ringrazio.

Thomas Bernhard, vent’anni fa

13 Febbraio 2009 § 0 commenti § permalink

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Esattamente vent’anni fa è scompariva uno degli scrittori europei da cui chi ama la musica ha più da imparare. La musica era nel suo modo di scrivere, nel suo stile aspro e ipnotizzante; ma non era una musica né facile né rassicurante. A volte emergeva come argomento, come nel romanzo Il soccombente, più spesso rimaneva nelle ondate del suo discorso, un flusso di coscienza fatto di un continuo rimasticare temi in infinite ripetizioni e microvariazioni.

Come tutti i grandi scrittori ha saputo leggere la società da cui era circondato – e a cui ha sempre cercato con violenza di sottrarsi – ben sotto la crosta delle apparenze, e ci racconta quello che le cronache nascondevano, e ancora oggi nascondono. La brutalità di un fascismo radicato e continuamente affiorante, per esempio; o la volgarità del “mondo intellettuale” e di quello artistico. Viene da chiedersi che cosa penserebbe dell’Europa di oggi, e dei suoi intellettuali e artisti. Viene da chiederselo, e non sarebbe neanche difficile rispondersi.

La vittoria dei Moderate Chic

11 Febbraio 2009 § 0 commenti § permalink

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Alcuni giorni fa, il Magazine del “Corriere della Sera” ha pubblicato la traduzione di un bellissimo articolo di Tom Wolfe. Si trattava di un chilometrico, iperbolico e pirotecnico pezzo scritto da Wolfe per ricordare il geniale editore Clay Felker e gli anni d’oro del “New York Magazine”. Purtroppo non l’ho trovato né sul sito del Corriere né su nessun altro sito in italiano, ma questo è l’originale pubblicato dal “New York”. Si parla degli anni migliori del giornalismo di costume, quando l’indagine sulla stratificazione sociale, gli stili di vita e l’individuazione di status è diventata un’arte e un genere letterario. E si parla anche della nascita dell’articolo che ha proiettato lo stesso Wolfe nel firmamento del giornalismo di costume americano; l’articolo che ha creato la definizione poi abusata di Radical chic, e assestato una mazzata micidiale alla coppia più elegante di New York: quella formata da Leonard e Felicia Bernstein.

Riassumo in breve il passaggio dedicato a quell’avvenimento, famosissimo ma sempre divertente. Wolfe una mattina bighellonava nella redazione di una rivista concorrente (Harper’s), quando su un tavolo avvista un cartoncino d’invito; curioso come dev’essere un cacciatore di costumi, lo apre e rabbrividendo scopre che riguardava un party nel celebre attico dei Bernstein a Park Avenue, organizzato in sostegno delle Pantere Nere. La crème dell’alta società bianca che invita le Pantere Nere a un party! Il massimo dell’esausto da stravizi che cerca il brivido perduto con il massimo della gioventù muscolosa e furiosa!

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Naturalmente Wolfe si presenta dai Bernstein con in tasca un registratore e tenendo ben visibili una penna e un taccuino (così dice lui, ma i Bernstein hanno sempre sostenuto che si fosse del tutto mimetizzato). Ne nasce uno dei reportage più memorabili degli anni Settanta: occuperà praticamente tutto il numero dell’8 giugno 1970 del “New York”, e insieme a un altro pezzo di feroce satira sociale diventerà molti anni dopo il libro Radical Chic & Mau-Mauing the Flak Catchers, tradotto in italiano da Castelvecchi con il titolo Radical chic. I Bernstein non perdoneranno mai Wolfe e il coraggioso Felker, e ancora molti anni dopo la loro figlia si lamenterà del “tradimento” di avere introdotto un registratore a un party privato. L’articolo è di incredibile perfidia, intelligenza e brillantezza, com’era il Wolfe degli anni della Fiera delle vanità; anche solo la copertina della rivista, che raffigura tre signore un po’ fané, in abito da sera ma con il pugno guantato delle Pantere, è roba da distruggere una credibilità sociale. I pensieri che Wolfe fa esprimere ai padroni di casa non sono da meno. “Piaceranno alle Pantere queste tartine di Roquefort coperte da briciole di noci?”

Se oggi mi viene in mente questo articolo non è solo grazie al pezzo del Corriere, ma perché mi è capitato di leggere il breve appello di Daniel Barenboim, firmato da decine e decine di intellettuali e artisti, e pubblicato sull’ultimo numero della “New York Review of Books”. Scorrere i nomi che hanno sottoscritto l’appello fa una certa impressione: quanta parte dell’establishment culturale! Per una volta, indubbiamente grazie a Barenboim, anche il mondo della musica e ben rappresentato. L’appello dice una cosa semplice come l’acqua fresca: “tanti anni di guerra in Medio Oriente hanno provato che non è così che si arriva alla pace. Fate la pace, please. Dimenticate il passato e create le condizioni per un futuro che rispetti i diritti di tutti, di una e dell’altra parte”. Che strano messaggio. Perché la crème dell’aristocrazia culturale pensa che mettere la firma sotto un documento così possa fare qualcosa per la pace in Palestina? Barenboim ha scritto libri, collaborato con grandi intellettuali come Edward Said, pubblicato diversi ottimi articoli e appelli, persino fondato un’orchestra che raccoglie giovani musicisti delle due parti. Ha una consapevolezza storica e politica che sembra essere ben distante da quella di tanti artisti che lanciano generici messaggi pacifisti; anche per questo un appello così scialbo proprio non riesco a capirlo.

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E si affaccia, naturalmente, il dubbio perfido che questo moderatismo genericamente pacifista, imperante nel mondo delle arti ormai da molti anni, ben rafforzato dalla vacuità melodiosa di mille musicisti da “La vita è bella”, impegnati a suonare in playback per Obama o all’Auditorium per Veltroni, siano il nuovo cultural chic contemporaneo. Meno ridicolo del radical chic, forse; sicuramente un bersaglio più difficile anche per il più pungente dei satiristi sociali. Ma comunque una forma di vacuità artistica e intellettuale altrettanto sgradevole. Ma naturalmente è solo un dubbio.

Nella foto in alto, Tom Wolfe negli anni di Radical Chic (non conosco l’autore della foto). Più in basso, il famoso numero di “New York Magazine” quasi totalmente dedicato all’articolo sul party dai Bernstein. Più in basso ancora, Daniel Barenboim prova con la West-Eastern Divan Orchestra, l’orchestra formata da giovani palestinesi e israeliani (foto proveniente da Intermezzo, che ringrazio).

Un Orfeo a Mumbai

2 Febbraio 2009 § 0 commenti § permalink

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La vitalità di una forma artistica può essere giudicata anche attraverso la capacità di comunicare che i suoi codici simbolici conservano nel tempo. Curiosamente l’opera lirica, mille volte data per defunta e considerata alla stregua di una forma di assistenzialismo artistico persino da qualche ministro della cultura, continua a rivelarsi capace di comunicare concetti ed emozioni in una tale molteplicità di contesti da stupire anche il più appassionato dei suoi spettatori-ascoltatori.

In questi giorni è nei cinema italiani un bellissimo film del regista inglese Danny Boyle: The Millionaire (Slumdog Millionaire nella versione originale). È la storia di Jamal Malik, un ragazzo degli slum di Mumbai, e della sua lotta per sottrarsi al destino di miseria al quale sembra condannato per nascita e condizione; una lotta che è scandita dai tempi di due vicende parallele e intrecciate: la ricerca del riscatto economico attraverso la partecipazione al quiz televisivo Chi vuol esser milionario, e la disperata lotta per riavere Malika, la donna che ama fin da bambino, fin dal giorno in cui ha perso la madre, uccisa dal fanatismo religioso. Gli sta a fianco, alternativamente come spalla e antagonista, il fratello maggiore Salim, un ragazzo più violento e determinato, corresponsabile al tempo stesso del dolore e del successo di Jamal.

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È un film molto ben costruito, che gioca con diversi codici simbolici e diversi ritmi: il mondo della televisione con i suoi format universali e il suo pathos, il cinema commerciale indiano con le sue convenzioni, i suoi miti e i suoi ritmi, in una girandola di fili narrativi intrecciati e salti temporali, di rimandi e allusioni che lo rende a volte persino eccessivamente “ripieno”. Ma c’è una scena che colpisce la retina e rimane misteriosamente registrata nella memoria, con tutti i significati e i simboli che porta con sé.

Jamal, Salim e Malika, i due moschettieri più uno (come si definiscono per gioco), si trovano a un certo punto del film a dover scappare da una banda di criminali che sfruttano i bambini degli slum costringendoli a chiedere l’elemosina per le strade di Mumbai; i due fratelli riescono a salire su un treno in corsa, ma Malika viene catturata. Scesi avventurosamente dal treno in quella che si scoprirà essere la città di Agra, davanti agli occhi di Jamal e Selim si dispiega improvvisamente la visione del Taj Mahal; una bellezza assurda, si potrebbe dire “fuori scala”, vista la durezza delle scene precedenti. I due bambini cominciano a vivere di espedienti attorno alle attrazioni del luogo, derubando i turisti o rivendendo le scarpe lasciate dai visitatori all’ingresso del palazzo. In seguito a uno di questi furti, Jamal viene duramente picchiato, e mentre si sta lavando le ferite nell’acqua di un fiume, sente una musica strana venire dai giardini del palazzo: noi lo sappiamo, è il suono di un oboe accompagnato dagli archi; lui comincia comincia a seguirlo, e arriva in un luogo che dato il contesto sembra quasi surreale: nei giardini si sta rappresentando uno spettacolo d’opera all’aperto, fra le luci dei riflettori e le scenografie. Mentre i suoi amici si arrampicano sui tralicci delle gradinate per rubare le borse degli spettatori, lui si sofferma a guardare.

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Quella che si vede è una grande scena infernale, coperta di fuoco e solcata da rivoli incandescenti, con due persone al centro, un uomo e una donna: lei sembra morta, lui la abbraccia. Ma ciò che colpisce è quello che si sente: terminato il passaggio dell’oboe, l’uomo comincia a cantare, e le parole che intona sono di quelle che chi ama l’opera conosce molto bene: “Eurydice, Eurydice! Mortel silence! Vaine espérance! Quelle souffrance!”. È l’aria di Orfeo dal II atto dell’Orphée et Eurydice di Gluck, la famosa “J’ai perdu mon Eurydice”; l’oboe, anche se i titoli di coda non lo indicano, proviene da un’altra pagina meravigliosa, l’arioso “Quel nouveau ciel”.

Ecco la melodia dell’oboe:

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ed ecco l’aria; la parte che si sente nel film è da 2:16

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Due tra i passaggi più patetici e profondi dell’opera, incollati con molta astuzia. L’inquadratura passa dal primo piano del viso pesto e incantato di Jamal a un flashback sul momento della separazione da Malika, il treno che corre, lei immobile che si fa sempre più lontana, e poi ancora lei, più grande, molto tempo dopo, che sorride alla stazione, in quel gioco di rimandi temporali incrociati che è una delle cose più belle di questo film.

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Ecco che attraverso pochi secondi di musica, Boyle fornisce una chiave interpretativa molto forte, e lo fa utilizzando il codice simbolico del melodramma. Il desiderio, il dolore e l’ostinazione di Orfeo, che per riavere Euridice attraversa la palude infernale, sono quelli di Jamal; il suo canto, la sua prova di bravura, il gesto con cui commuove il mondo è la partecipazione a un quiz televisivo. Ma l’aria di Orfeo non è solo di dolore: contiene il senso di colpa. Orfeo piange perché la sua curiosità gli ha fatto perdere di nuovo Euridice; doveva tenere gli occhi chiusi, non doveva guardare, doveva fidarsi. Jamal è fuggito dai criminali che lo stavano per accecare; ha voluto sottrarsi a un destino segnato per sempre, ha voluto conoscere la vita, passare attraverso l’inferno del mondo per riconquistare davvero la libertà di Malika e la propria. Il significato che poche note musicali sanno portare è centrale per la comprensione del film, e curiosamente viene utilizzata un’opera del diciottesimo secolo; qualcosa di apparentemente lontanissimo dall’ambientazione della vicenda. Ma volendo guardare, c’è anche di più.

Che il codice dell’opera barocca non sia in realtà poi così lontano da quello del cinema di Bollywood, è cosa che più di un regista ci ha fatto scoprire da tempo (vedi per esempio il famoso Giulio Cesare di David McVicar). Ma anche senza abbandonarsi all’accanimento interpretativo, c’è un altro filo, chissà se del tutto casuale, che la presenza dell’aria di Gluck in quella scena porta con sé. Jamal fugge per evitare una mutilazione dettata da esigenze estetiche, pur se criminali: il canto di un bambino cieco attira dieci volte di più elemosine, dice uno dei personaggi. Gluck ha scritto quella melodia per Gaetano Guadagni, un castrato; la versione del film, tuttavia, è quella parigina per tenore… Chissà se Boyle ci ha pensato. La distanza tra le cose spesso è una questione di punti di vista; a volte sembra incredibile, ma l’opera sa ancora offrirne uno centrale e privilegiato rispetto a buona parte del nostro immaginario.


Le immagini sono tutte fotogrammi del film. I due brani musicali sono tratti dall’edizione dell’Orphée et Eurydice di C.W. Gluck utilizzata anche da Boyle per la colonna sonora. Si tratta dell’esecuzione diretta da Hans Rosbaud, con Leopold Simoneau, Suzanne Danco e l’Orchestre des Concerts Lamoureux (Philips 1956). La versione dell’opera è quella di Parigi del 1774, con Orfeo interpretato da un tenore (e Simoneau nella parte è una vera lezione di stile e fraseggio, anche se lontana anni luce dalle versioni filologiche di oggi).

Take Care of This House

20 Gennaio 2009 § 0 commenti § permalink

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1600 Pennsylvania Avenue” non è solo l’indirizzo della casa che da oggi avrà come nuovi inquilini Barak Obama e famiglia: è anche il titolo della meno conosciuta e rappresentata fra le opere di Leonard Bernstein. Non viene rappresentata perché non si può: la Bernstein Foundation, che raccoglie l’eredità del grande Lenny, lo proibisce; e lo proibisce perché così volle Leonard, quando lo spettacolo, un musical, l’8 maggio del 1976 chiuse i battenti dopo soltanto 7 recite, massacrato dalla critica e deriso dal pubblico. Durante le 13 “anteprime”, conscio del fatto che la debolezza fosse da addebitarsi soprattutto al libretto di Alan Jay Lerner, Bernstein chiamò al capezzale del suo spettacolo tutti i migliori amici, Jerome Robbins compreso, che furono concordi nel considerarlo irrecuperabile. Si potrebbe dire che 1600 Pennsylvania Avenue sia stata la più grande delusione della carriera di Bernstein; eppure fu anche l’opera per la quale, in assoluto, scrisse più musica: più di Candide, più di A Quiet Place. Se si vuole conoscere la storia di questo sfortunato musical, si può leggere il succinto ma preciso articolo di wikipedia.

Il libretto è un intrico di plot e subplot, il cui filo principale era definito dal curioso sottotitolo: “A musical about the problems of housekeeping”, dove la “cura della casa” (housekeeping), visto di quale casa si tratta, assume tutta una serie di significati politici e satirici. In questo filo narrativo principale sono rappresentati 12 presidenti degli Stati Uniti, da George Washington a Theodor Roosevelt (dunque dalla fine del Settecento ai primi del Novecento), ognuno con una propria particolare scena. C’è dunque il bozzetto parlamentare, con Washington e i delegati del Congresso che discutono su quale dovesse essere la capitale degli Stati Uniti, poi John Adams e consorte, quindi Jefferson che organizza un luculliano pranzo ufficiale, Madison che fugge e gli inglesi che tentano di dare fuoco alla Casa Bianca (1812), James Monroe e la moglie che non riescono a prendere sonno e discutono di schiavitù, e così via, fino all’augurio che Roosevelt porge al nuovo secolo. Dal punto di vista musicale, ogni situazione è un diverso pezzo di bravura: arie liriche, duetti, terzetti, concertati, cori, pezzi da ballo con finta musica ottocentesca, una Minstrel parade jazzistica, blues e via dicendo; si prenda per esempio lo strepitoso tour de force di un duetto per il soprano solo che si svolge durante il giuramento di Rutherford Hayes (1877), dove la stessa cantante alterna velocemente le emozioni della moglie del presidente uscente Grant e di quella dell’eletto Hayes, la prima che impazzisce di rabbia per il potere perduto e di invidia per la seconda, che invece conta i secondi che la separano dal diventare finalmente First Lady. Nonostante il fiasco, si tratta di un Berstein in gran forma.

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Accanto a questo primo filo narrativo, soprattutto nella prima parte, se ne intreccia un secondo che ritrae la vita dei due domestici neri della Casa Bianca, Lud e Seena, dalla gioventù alla vecchiaia, e attraverso la loro storia (i due si innamorano, si sposano, si confrontano con i diversi presidenti) il problema della schiavitù e poi dei diritti dei neri. A tutto questo si aggiunge un terzo filo narrativo, molto di moda all’epoca e oggi piuttosto demodè: le discussioni della compagnia di attori e cantanti che sta provando l’opera, e che ogni tanto si ferma per analizzare le questioni politiche e sociali collegate. Insomma, una trama forse inutilmente intricata per un totale di più di quattro ore di spettacolo. Troppo sia per il pubblico sia per la critica.

Dopo la morte di Bernstein, pur rimanendo il veto alla rappresentazione (credo che un solo allestimento, nel 1992, superò questa censura), dallo spettacolo fu ricavata una Cantata di 80 minuti circa, che cuciva insieme i numeri musicali più belli, eliminando totalmente il subplot di “teatro nel teatro”: A White House Cantata. Nel 1998 Kent Nagano la incise per la Deutsche Grammophon, con una compagnia di canto (Thomas Hampson, June Anderson, Barbara Hendricks ecc.) che spostava decisamente in ambito lirico il sound e l’impostazione generale dell’opera, mantenendo tuttavia l’orchestrazione originale del musical. È solo da quell’incisione che oggi ci si può fare un’idea di quali perle contenesse 1600 Pennsylvania Avenue, e di quanto varrebbe la pena di riscoprirla. Alcuni numeri della partitura originale furono trapiantati da Bernstein in altri lavori, altri riuscirono a sopravvivere nonostante il veto.

Fra questi ultimi, la bellissima aria di Abigail Adams, la moglie del secondo presidente, che rivolgendosi al domestico ancora bambino gli raccomanda di prendersi cura della Casa anche quando loro non ci saranno più: “Care for this house | It’s the hope of us all”. Un song sofisticato, pieno di quel senso di felicità e facilità inventiva che è la grandezza di Bernstein, ma che lo condannerà per sempre agli occhi della critica più bacchettona.

Melodia, armonia, ritmo e retorica: difficile pensare a qualcosa di più americano di “Take Care of This House”: Frederica Von Stade, sotto la direzione di Bernstein, la cantò nel concerto dell’“Inauguration Day” di Jimmy Carter, 32 anni fa esatti esatti. Oggi il marketing del sogno di Obama ha richiesto ben altro concerto, ma per il grande amore che tutti (spero) portiamo al grande Lenny, può essere di ottimo auspicio rinnovare oggi l’invito di Abigail, con tutto il cuore: take care of this house, Barak. Dato l’inquilino precedente, ne ha molto bisogno.

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Take Care of This House”, June Anderson (sop.), Victor Acquah (v. bianca), da L. Bernstein, A White House Cantata, London Symphony Orchestra, London Voices, dir. Kent Nagano. Deutsche Grammophon 463 448–2.

Foto in alto: Bernstein a metà degli anni ’70, © Bernice Perry.

A Mendelssohn tutto è vietato?

13 Gennaio 2009 § 0 commenti § permalink

mendelssohnNon comincia in maniera festosa il bicentenario della nascita di Mendelssohn. In un articolo di Jessica Duchen pubblicato ieri sull’«Independent» di Londra, si racconta infatti di un mistero legato allo strettissimo rapporto affettivo che legò il compositore al leggendario soprano Jenny Lind, che secondo un importante musicologo, Curtis Price, potrebbe gettare una luce fosca sulle circostanze della morte di Mendelssohn.

jenny_lindIl mistero avrebbe origine da un “affidavit”, una dichiarazione sottoscritta da Otto Goldschmidt, allievo di Mendelssohn e marito di Jenny Lind, depositato nell’archivio della Mendelssohn Scholarship Foundation (oggi ospitato dalla Royal Academy of Music di Londra), attraverso il quale nel 1896 dichiarava di avere distrutto una lettera del compositore alla cantante; nella lettera, datata 1847, Mendelssohn confessava il suo violento amore alla donna, le chiedeva di fuggire insieme a lui in America e minacciava il suicidio in caso di rifiuto. Scrive la Duchen: “Lind, come si può immaginare, rifiutò. Pochi mesi dopo il compositore era morto”.

Il documento di Goldschmidt avrebbe dovuto rimanere segreto per 100 anni, e dunque fino al 1996, ma per qualche strano motivo continuerebbe a essere tenuto nascosto, nonostante le insistenze di diversi studiosi, tra cui l’autrice dell’articolo. Nel 1847, l’anno della misteriosa lettera e della morte di Mendelssohn, Jenny Lind era ancora nubile (si sarebbe sposata cinque anni dopo), ma Felix era legato da dieci anni a Cécile Jeanrenaud in quello che è sempre stato descritto dall’agiografia romantica come un matrimonio straordinariamente felice; dall’unione erano già nati cinque figli.

Jenny Lind è una figura quasi leggendaria della storia dell’opera. L’“usignolo svedese”, come era soprannominata, oltre a una capacità vocale che le fruttò una precoce fama in tutto il mondo (celebre è rimasto il suo tour americano organizzato da P.T. Barnum, che le versò una cifra colossale per oltre 150 concerti) doveva essere dotata di un discreto fascino, se fra i sui grandi ammiratori si ricordano anche Hans Christian Andersen e Frederic Chopin. Il primo ruolo a cui è legata la sua carriera è quello di Agathe nel Freischütz di Weber; nel 1847 sarà Amalia alla prima mondiale dei Masnadieri di Verdi a Londra. Per lei Mendelssohn sognava di scrivere un’opera ispirata alla Lorelei, e se non riuscì mai a realizzare questo desiderio, per la sua voce scrisse nel 1846 la parte di soprano nel meraviglioso oratorio Elias. In fondo, che sotto il sublime religioso ci sia un fondamento erotico non è certo una cosa nuova; anzi, è per molti versi rassicurante. Per un anno, dopo la morte del compositore, Jenny non riuscì a riavvicinarsi all’oratorio; lo fece di nuovo nel 1848, raccogliendo più di 1000 sterline con cui creò proprio la Mendelssohn Scholarship Foundation, una fondazione votata alla protezione dei giovani compositori e musicisti. Quella stessa che oggi non sembra voler rivelare la verità sul rapporto tra lei e il compositore.

Ma perché tanto mistero? Che cosa c’è di scandaloso in questa storia? Assolutamente nulla, se si osserva la cosa con occhio disincantato e moderno. Che Mendelssohn non fosse quella figura di romantico e in fondo felice sognatore che lo schmalz Biedermeier tramanda si sapeva da tempo; i danni che questa caricatura borghese ha fatto alle ricezione della sua musica sono gravi, forse pari all’odio che il nazismo gli dimostrò per motivi razziali. Nell’articolo della Duchen, il violoncellista Steven Isserlis – che scopriamo essere lontano parente di Mendelssohn – invita all’ascolto del Quartetto in fa minore (op. 80), per rendersi conto di quanto potesse essere tormentata la sua musica (la sua anima?) sotto la superficie. Ma per qualche oscura ragione, a duecento anni dalla nascita, non si vuole che su questo compositore si getti uno sguardo diretto e limpido. Non comincia in maniera festosa, dunque, il suo anniversario; ma non è detto che tutto il male venga per nuocere.

* * *

Questa è forse la più bella delle arie che il soprano canta nell’Elias: “Höre, Israel!”, con cui si apre la seconda parte dell’oratorio. Il soprano è Elly Ameling, e Wolgang Sawallish dirige l’orchestra della Gewandhaus di Lipsia, nell’incisione Philips del 1968.

In altro a sinistra, Jenny Lind nel 1846, ritratta da Eduard Magnus (Berlino, Staatliche Museen zu Berlin, Nationalgalerie); a destra, Mendelssohn dieci anni prima nel ritratto di Theodor Hildebrandt (Berlino, Deutsches Historisches Museum).

Il tiro mancino del pianista

10 Gennaio 2009 § 0 commenti § permalink

mano

Per un musicista (e più in particolare per un pianista) è un vantaggio essere mancini? Si tratta di un tema vecchissimo, sul quale ogni insegnante ha la propria teoria. Il mancino, come ogni portatore di una qualche diversità dalla maggioranza, ha sempre destato sospetti: in tutte le lingue che io conosca esistono vocaboli che mettono in relazione ciò che è “sinistro” con l’infido, il maligno (che non a caso zoppica, e naturalmente dal piede sinistro). Ci sono insegnanti che con incredibile perseveranza e crudeltà hanno costretto gli allievi mancini a scrivere con la destra; in campo musicale, esistono strumenti a corda per mancini (con le corde, e dunque le relative strutture di sostegno, invertite), e ultimamente c’è anche chi costruisce pianoforti per mancini, anche se la cosa può sembrare totalmente folle.

Ma naturalmente c’è anche l’altra versione. E meno male. Il mancino è portatore di una diversità che, come ogni diversità, può costituire uno straordinario vantaggio non solo per lui, ma per la società intera. D’altro canto non si tratta certamente di una caratteristica rara: si stima che il dieci per cento della popolazione mondiale sia mancino. Ma tornando all’interrogativo iniziale, per un pianista è un vantaggio oppure no? Un piccolo aiuto può venirci da un curioso articolo di Pierre Ruhe pubblicato dall’«Atlanta Journal-Constitution», il principale quotidiano di Atlanta (ringrazio Bart Collins per la segnalazione). Curioso perché non sembra essere stato suscitato dalla comparsa di un nuovo studio o da una dichiarazione di qualche scienziato, ma probabilmente solo dal desiderio di presentare il direttore principale ospite della Atlanta Symphony Orchestra, Donald Runnicles, da un diverso punto di vista; ciò nonostante l’articolo contiene molte informazioni interessanti.

Come molti destri, la mia personale opinione, per esempio, si basava sul luogo comune che essendo la mano destra, tradizionalmente, quella dell’agilità, lo studio del pianoforte potesse rivelarsi particolarmente impegnativo per un mancino; è probabile che l’argomento comporti (inconsciamente) un testo sottotraccia: la mano destra è quella dell’agilità perché la musica è stata composta da musicisti destri per interpreti destri. La sorpresa sta invece nello scoprire che non solo molti grandissimi pianisti erano o sono mancini (Vladimir Horowitz, Arthur Rubinstein, Glenn Gould, Daniel Barenboim, Radu Lupu, Leif Ove Andsnes), ma anche moltissimi grandi compositori; la lista comprende C.P.E. Bach, Beethoven, Schumann, Brahms, Rachmaninoff e Scriabin. E allora, come la mettiamo?

Ma l’articolo si spinge oltre, e afferma che l’essere mancino per un pianista è un vantaggio, come spiega Russel Young, direttore del dipartimento di opera e teatro musicale della Kennesaw State University:

[Se sei mancino] leggi la musica stampata sulla pagina dal basso verso l’alto. Una volta che hai compreso la linea di basso, ne ricavi un’idea più solida della struttura armonica, dato che la mano destra il più delle volte è occupata dal libero andamento melodico.

Non poteva mancare l’opinione dello scienziato. Samuel Wang, docente di Neuroscienze a Princeton, e coautore di Il tuo cervello. Istruzioni per l’uso e la manutenzione (Mondadori 2008) – il pazzo titolo dell’edizione americana era Welcome to Your Brain: Why You Lose Your Car Keys But Never Forget How to Drive and Other Puzzles of Everyday Life – ci spiega che la prevalenza (addirittura!) dei mancini tra i pianisti di massimo livello è un fatto scientificamente prevedibile, poiché suonare a quel livello “è estremamente impegnativo, e qualsiasi vantaggio, per quanto piccolo, si mette subito in forte evidenza”; e prosegue:

I pianisti devono coordinare l’attività di entrambi gli emisferi del cervello, dal momento che ciascuno di essi è responsabile per il movimento di una separata mano. [Nel campo del linguaggio] un mancino su sette coordina il linguaggio attraverso entrambi gli emisferi, mentre tra i destri il rapporto è di uno a venti. Questo comporta il vantaggio di avere il doppio di “spazio disponibile” cerebrale per governare il linguaggio, e può spiegare la quantità di mancini verbalmente dotati – vengono in mente Clinton e Obama.

Lasciando da parte quest’ultima considerazione (poco prima ci era stato spiegato con fierezza che sei degli ultimi dodici presidenti degli Stati Uniti erano mancini), a seguire quest’articolo sembrerebbe dunque che la risposta alla domanda di partenza sia affermativa. Certo, mi piacerebbe sentire quanti maestri di pianoforte sono d’accordo, però l’argomento è interessante, perché al di là del vantaggio tecnico, si allude a una diversa “sensibilità” nei confronti del suono e della struttura della musica, cosa che si riflette nella scrittura e nell’interpretazione.

In ogni caso, l’articolo ci avverte che Runnicles, quando dirige la Atlanta Symphony, rovescia specularmente la disposizione dell’orchestra: “per sentire i bassi nella mia mano dominante, in analogia con quanto avviene al pianoforte”.

Foto in alto: Beach Hand, © di Wzrdry